Pubblicato su MicroMega online
È noto quanto il giorno del Ringraziamento sia, negli Stati Uniti, una festività molto sentita, la più classica delle occasioni per ritrovarsi in famiglia attorno alla tavola su cui troneggia l`immancabile tacchino. Poiché la ricorrenza cade tradizionalmente ogni quarto giovedì di novembre, il giorno successivo al Thanksgiving è sempre un venerdì, il cosiddetto Black Friday, che segna anche l`inizio della frenetica stagione dello shopping natalizio. Per l`americano medio, quelle del «venerdì nero» (varie sono le supposizioni, che qui tralasciamo, circa l`origine dell`espressione) sono ore interamente dedicate al consumo, anche in relazione al fatto che molti datori di lavoro non operanti nel settore del commercio – per non rischiare di compromettere il rito del pellegrinaggio alle casse e al fine di evitare l`accusa di attentare alla grandezza economica della nazione – le «regalano» ai propri dipendenti come se il Black Friday fosse una festa comandata (che non è).
Le grandi catene commerciali di vendita al dettaglio, dal canto loro, negli ultimi anni hanno cominciato a ridurre sempre di più l`intervallo di tempo che separa la fine del tradizionale pasto in famiglia dall`inizio della propria, ben più prosaica e pantagruelica abbuffata di quattrini provenienti dalle tasche della working class. Tasche, com`è noto, considerevolmente alleggeritesi per effetto della crisi economica degli ultimi anni ma che, tuttavia, continuano a cominciare a svuotarsi durante il Black Friday ad orari improponibili. Se per anni era invalsa la consuetudine di aprire i negozi, soprattutto quelli dei campioni della grande distribuzione, già alle 6 di mattina, l`arrancare dell`economia statunitense e mondiale ha portato, dopo il 2008, a casi di vero e proprio estremismo consumistico: le 5, o le 4 di mattina come orario per sollevare la saracinesca è stato, fino al 2011, il guinness stabilito da alcuni noti brand al fine di offrire maggiore libertà d`azione alle frotte di predatori di merci a basso costo, superato l`anno scorso da grandi magazzini come Macy`s e Target, che hanno deciso di aprire già a mezzanotte, non appena conclusosi il giorno del Ringraziamento. Il Black Friday 2012, tuttavia, ha segnato da questo punto di vista un decisivo salto di qualità, esemplificato dalla scelta di Walmart, il numero uno mondiale del retailing, di impedire di fatto ai propri dipendenti di godersi in santa pace il tacchino: alle 8 di sera di giovedì scorso, gli enormi punti vendita della catena fondata da Sam Walton avevano già aperto i battenti.
La «nostra» Walmart
Ma c`è anche un altro motivo per cui l`ultimo venerdì nero di Walmart sarà ricordato in futuro: in tutti gli stati dell`unione, eccetto quattro, centinaia di lavoratori del moloch della grande distribuzione sono entrati in sciopero, fatto piuttosto raro, per chi lavora alle dipendenze dei Walton. Secondo gli organizzatori della protesta, riuniti nell`associazione OURWalmart (Organization United for Respect at Walmart), nell`intero territorio Usa i casi in cui gruppi di lavoratori hanno incrociato le braccia sono stati più di mille, hanno riguardato sia i dipendenti dei punti vendita sia gli addetti dei magazzini e della mastodontica rete di distribuzione e non rappresentano che l`inizio di una prossima escalation di proteste.
L`iniziativa che il gruppo – fondato un anno e mezzo fa da alcuni lavoratori con l`aiuto del sindacato degli United Food and Commercial Workers (Ufcw) – ha messo in piedi per il Black Friday del 2012 non nasce tuttavia in maniera inaspettata. Già a settembre i lavoratori dell`enorme magazzino di Elwood, nell`Illinois – snodo centrale nella rete di distribuzione di Walmart, all`interno del quale arriva il 70% delle merci di importazione che poi finiranno sugli scaffali dei punti vendita – erano stati protagonisti per circa tre settimane di uno sciopero, poi conclusosi ai primi di ottobre con un trionfale ritorno al lavoro dopo l`accoglimento delle loro richieste. Poco prima che prendesse il via lo sciopero di Elwood, anche la California aveva visto i magazzinieri Walmart impiegati nell`Inland Empire, la grande area metropolitana a est di Los Angeles, organizzare una marcia di protesta di sei giorni (la «Walmarch») che li aveva portati dalla propria sede di lavoro fin sotto il municipio della metropoli americana. I due episodi sono stati poi seguiti, nei mesi di ottobre e novembre, da una serie di scioperi dei commessi impegnati nella vendita al dettaglio, svoltisi in almeno una dozzina di città statunitensi. La giornata di sciopero di venerdì scorso doveva appunto essere il momento culminante di questa prima ondata di agitazioni e di astensioni dal lavoro concordate a livello nazionale dai lavoratori di Walmart.
L`alto costo dei bassi prezzi
Se, di primo acchito, i numeri della partecipazione allo sciopero possono sembrare, considerati con occhi «europei» e in termini assoluti, abbastanza modesti (si tratta in fondo di centinaia di partecipanti su un totale di un milione e trecentomila dipendenti Usa), bisogna tuttavia calare l`episodio nel suo contesto. Walmart non è famosa solamente per il gigantismo dei suoi punti vendita, i bassi prezzi, il fatturato stellare e l`esercito dei suoi dipendenti (che ammontano a due milioni e duecentomila in tutto il mondo) ma anche per il suo estremismo antisindacale e le pessime condizioni cui è sottoposta la forza lavoro dei suoi punti vendita e dei suoi magazzini. Nel corso del primo decennio del nuovo millennio, varie campagne organizzate da attivisti di sinistra, sindacati e gruppi ambientalisti hanno cercato di sensibilizzare l`opinione pubblica sull`«alto costo dei bassi prezzi» (Wal-Mart: The High Cost of Low Price è il titolo di un documentario molto critico nei confronti della multinazionale girato nel 2005 da Robert Greenwald) senza riuscire tuttavia a scalfire l`enorme potere economico e finanziario della società. D`altro lato, i tentativi succedutisi nello stesso periodo di sindacalizzare la forza lavoro di Walmart, messi in campo soprattutto dagli United Food and Commercial Workers, non hanno sortito effetti, e l`azienda è col tempo assurta a simbolo dello sfruttamento e delle bad practices sindacali e ambientali all`epoca della globalizzazione. Ad oggi, Walmart rappresenta di fatto una roccaforte da espugnare per il movimento operaio americano: vincere la battaglia contro la creatura della famiglia Walton facendovi entrare il sindacato e garantendo ai suoi dipendenti il diritto di esprimersi contro le scelte del management equivarrebbe a porre le premesse per fare lo stesso in tutto il settore del retailing e della grande distribuzione made in Usa, decisamente allergici alle unions.
Ma perché i lavoratori di Walmart si lamentano tanto? Oltre a non essere rappresentati ufficialmente da alcun sindacato, i dipendenti dell`azienda (che aprì il suo primo punto vendita nel 1962 in Arkansas, lo stato in cui ha tuttora il suo quartier generale) devono fronteggiare quotidianamente un combinato disposto fatto di salari al limite della sopravvivenza, turni massacranti e imprevedibili, forte autoritarismo da parte del management e rappresaglie (che possono andare dal mobbing fino al licenziamento) contro i pochi che osano alzare la testa e provano ad organizzarsi per difendere i propri diritti. Tanto le paghe dei magazzinieri e degli addetti alla logistica quanto quelle dei commessi sono così risicate che molti dipendenti di Walmart sono di fatto costretti ad integrare il magro salario facendo altri lavori e ricorrendo all`assistenza dello Stato e ai cosiddetti food stamps, i buoni per l`acquisto di cibo che il governo federale rilascia ai cittadini a basso reddito o nullatenenti.
A una condizione esistenziale e lavorativa così miserevole fanno da contraltare le enormi ricchezze accumulate dalla dinastia Walton: negli ultimi dieci anni Walmart, il più grande rivenditore al dettaglio del globo, ha sempre occupato stabilmente il primo o il secondo posto della lista, pubblicata dalla rivista Fortune, delle 500 aziende più ricche d`America in termini di fatturato. Stando ai dati forniti da un`altra classifica, quella dei 400 paperoni Usa stilata ogni anno da Forbes, i sei membri della famiglia Walton che figurano nella lista detengono cumulativamente una ricchezza che equivale a quella del 30 per cento più povero della popolazione degli Stati Uniti.
Stand up! Live better!
Considerato dunque il contesto, non si può non prendere atto che i lavoratori di Walmart che durante il Black Friday hanno deciso di scioperare al grido di Stand up! Live better! (slogan che fa il verso allo storico motto dell`azienda: Save money. Live better), anche se potrebbero sembrare numericamente pochi rispetto al totale della forza lavoro impiegata, lo hanno fatto a proprio rischio e pericolo, sfidando la prassi consolidata, da parte del management, di vendicarsi contro chi si ribella, magari in forme subdole (trasferimenti, mobbing, ecc.) o magari con un licenziamento servito freddo a settimane o mesi di distanza. Non è certo un caso se venerdì scorso, secondo quanto riportato dal giornalista di The Nation Josh Eidelson, che ha seguito l`evento del Black Friday in presa diretta sul suo blog, il tema delle future, possibili, rappresaglie nei confronti degli scioperanti era sulle bocche di tutti durante le manifestazioni e i picchetti che si sono tenuti di fronte ai punti vendita.
Eppure, diverse dichiarazioni rilasciate al corrispondente del prestigioso settimanale statunitense lasciano anche intravedere quella che è stata la motivazione principale che ha indotto tanti lavoratori ad assumersi i rischi connessi con il proprio gesto: la speranza, e in alcuni casi l`aspettativa, di fare da apripista e di fornire ai propri colleghi l`esempio concreto che «si può fare». Dominic Ware, uno scioperante intervistato al picchetto di San Leandro, in California, ha confidato ad esempio a The Nation: «certo che ho paura a scioperare, ma ho anche più paura del fatto che, in futuro, altre persone verranno a lavorare a Walmart spinte dalla ricerca di un futuro migliore e finiranno per essere prese a pesci in faccia com`è capitato a me». «Sono felicissima di star facendo la storia», ha invece detto ad Eidelson la scioperante di Miami Elaine Rozier, «sono felice che i miei nipoti possano imparare da noi a combattere per i propri diritti. Prima me ne rimanevo al mio posto senza dire nulla… stasera, invece, sono orgogliosa di me stessa». Uno sciopero non scontato, dunque, che si inserisce all`interno di un percorso che dura ormai da mesi e che, soprattutto, sembra stabilire un punto di non ritorno per il futuro. Ma perché i precedenti tentativi di far entrare il sindacato a Walmart sono falliti? E in cosa consisterebbe, stavolta, la differenza?
Ritorno alle origini
In un`intervista rilasciata recentemente al periodico In These Times, lo storico del lavoro statunitense Nelson Lichtenstein, autore del volume The Retail Revolution: How Wal-Mart Created a Brave New World of Business, sostiene che il limite principale dei passati tentativi di sindacalizzare il gigante dell`Arkansas è consistito soprattutto nella scarsa comprensione dei meccanismi di funzionamento di quella macchina macina profitti che è Walmart. Il «vantaggio competitivo» di quest`ultima, secondo Lichtenstein, «consiste in un eccellente sistema di distribuzione. Ci sono diversi strati di subappalto, ma è tutto un`unico sistema, un`unica grande fabbrica sfruttatrice (a mass sweatshop) nella quale la catena del subappalto serve a spremere il più possibile la forza lavoro. L`industria è la catena di distribuzione». Operai magazzinieri come quelli di Elwood, in realtà, non sono assunti direttamente da Walmart, ma sono dipendenti (spesso part-time) di ditte che lavorano per Walmart. Eppure sono riusciti in quaranta, nel giro di tre settimane, a mettere in ginocchio tutta la rete logistica, colpendo direttamente gli interessi economici della casa madre. È proprio questa nuova alleanza fra i lavoratori della distribuzione, da un lato, e quelli della vendita al dettaglio, dall`altro, la novità più pericolosa per la famiglia Walton. Ed è una novità di cui sono ben consapevoli coloro che hanno scioperato durante il Black Friday.
Ma c`è anche un`altro aspetto che Lichtenstein sottolinea nella sua intervista. La strategia seguita in passato dagli United Food and Commercial Workers è stata quella «ortodossa»: «c`erano dei lavoratori che facevano la tessera del sindacato, e in alcuni casi potevano essere anche la maggioranza all`interno di un punto vendita. Ma Walmart era estremamente abile ad avvalersi delle leggi sul lavoro esistenti, che sono estremamente favorevoli ai datori di lavoro, per schiacciarli. Gli Ufcw si sono quindi resi conto che la cosa non avrebbe funzionato. OURWalmart è invece una specie di ritorno alle organizzazioni sindacali degli anni `30. È un`associazione che non cerca una certificazione legale e non sostiene di rappresentare nessuno. Si tratta semplicemente di una minoranza di lavoratori decisi ad alzare la testa e a venire allo scoperto».
La forza di OURWalmart starebbe quindi nel suo essere un`entità informale, non ossessionata dal riconoscimento della controparte e votata in maniera diretta ed esemplare al conflitto. Non è del resto un fatto nuovo, nella storia del movimento operaio: le associazioni dei lavoratori non possono che nascere in maniera spontanea sulla base delle urgenze cui i lavoratori stessi sono esposti nella propria esperienza quotidiana. Solo successivamente arrivano ad avere uno status legale e formale, cosa che, se da un lato contribuisce a rafforzarle, dall`altro le espone a tutta una serie di rischi di burocratizzazione. OURWalmart non è un sindacato, ma agisce come un sindacato. Gli obiettivi che si propone di raggiungere sono in realtà piuttosto modesti, ma rappresentano il gradino iniziale sul quale puntare i piedi per cominciare a salire la scala: un compenso orario di 13 dollari, turni stabili e umani e la possibilità di avere un`assicurazione sanitaria. Il loro conseguimento dipenderà anche dalla capacità di coinvolgere negli scioperi dei prossimi mesi masse sempre più larghe di lavoratori che, finora, per paura o per senso di sfiducia, sono rimasti a guardare. Certo, un ruolo determinante sarà giocato anche dall`atteggiamento dell`azienda, dalle sue possibili (e probabili) ritorsioni collegate allo sciopero del Black Friday. Quest`ultimo, ad ogni modo, un obiettivo sembra averlo già raggiunto: dimostrare che organizzarsi è possibile. Anche a Walmart.