ROMA – Un ceppo di legno e la dicitura «Anche questo è un libro». È la campagna pubblicitaria del salone della piccola editoria di quest’anno. Roma 2012, il mistero dello spot. Che vuol dire? L’enigma si svela guardando le altre invenzioni dei creativi. Il filo conduttore è l’associazione di idee. Tronco di legno – Pinocchio; maialini – La fattoria degli animali. E così via. Solo che tutta la città è tappezzata con la pubblicità del legno. E qualcuno lo interpreta come: «Anche questo è un libro, dunque non abbattete gli alberi».
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Il fantasma del libro elettronico, del resto, aleggia ovunque. Stanno relegati in fondo al piano terra, tra il caffé letterario e le scale, nonostante Sony sia tra gli sponsor principali del salone e IBS uno degli operatori principali del mondo editoriale. Gli altri non ci sono. Né Amazon né Apple, e forse non ritengono utile mostrare gadget elettronici che del resto tutti conoscono. Il libro elettronico è il futuro, è il protagonista dei convegni e nessuno ufficialmente ne parla male. Ma per tanti è il nemico, il killer. Ucciderà il libro di carta, una intera civiltà basata sul volume rilegato. E distruggerà le librerie, sconfitte da orde di nativi digitali brufolosi e multitasking, incapaci di andare oltre le 10 righe prima di resistere alla tentazione del cambio di applicazione, prima di controllare se è arrivato un nuovo messaggio da Facebook.
Non c`è Ken Loach, a Roma. Non avrebbe avuto motivo di esserci, se non per rompere l`ipocrisia come ha fatto al Festival del Cinema di Torino. Lì ha rifiutato platealmente di ricevere un premio non perché la cooperativa che gestisce la logistica sfrutta i lavoratori (problema specifico) ma per protestare contro l`esternalizzazione sistematica (problema generale).
Il suo gesto, oltre a non essere compreso, è stato vissuto con fastidio. Nessun intellettuale di sinistra ha seguito il suo esempio. E nei convegni, nelle premiazioni, nelle tavole rotonde i colti autori delle battute contro il precariato ignoreranno che chi ha montato il palco, chi ha portato il pacco coi libri in vendita, chi pulirà la sala dopo l`ultimo applauso è uno stagista, un «volontario» a rimborso spese, una falsa partita Iva. Come in agricoltura, come in edilizia. Ma con più spocchia.
Si vergognerebbero come ladri a lavorare in un`agenzia immobiliare con un contratto a tempo indeterminato, fanno orgogliosamente gli stagisti a condizioni che un cinese rifiuterebbe. Sono i normali lavoratori della piccola editoria, gente che con passione e dedizione tira avanti la carretta più per la voglia di lavorare nella cultura che una reale remunerazione. La crisi ha reso più dure le loro condizioni. A Milano non ne possono più. Lì l`editoria è una vera industria. Eppure i grandi gruppi chiedono ai loro dipendenti di farsi la partita Iva. Non si fa più nemmeno in edilizia coi muratori rumeni. Persino la riforma Fornero lo aveva proibito. I precari del mondo editoriale rilasciano interviste anonime, manco fossero pentiti di mafia.
E poi ci sono corsi surreali. Oggi promuovono quello in «alta formazione per la gestione delle librerie». Ragazzi sorridenti aprono il pieghevole che viene distribuito. In perfetta contemporanea l`associazione degli editori (AIE) distribuisce un libro elettronico che paragona i grandi bookstore internazionale (Apple, Kobo, Amazon, Barnes & Noble) ai i regni combattenti della Cina avanti Cristo. Numeri con tanti zeri e scenari paranoici fanno comunque pensare che non ci sarà molto spazio, nei prossimi anni, per i piccoli punti di distribuzione.