Reportage dal Piemonte

Saluzzo. Rosarno a un passo dalla Francia

Antonello Mangano
  Oltre cento africani impegnati nella raccolta della frutta hanno vissuto accampati senza un tetto né servizi alla stazione di Saluzzo. Sono stati poi sgomberati e dispersi nei dintorni, in condizioni spesso peggiori. Siamo al centro di uno dei distretti agricoli più importanti – e ricchi – d`Europa, che però non riesce ad assicurare un tetto e contributi regolari ai braccianti stranieri. Situazioni consuete nel Sud che adesso arrivano nel Nord Ovest. Le istituzioni negano: “Rosarno è distante e tanto è stato fatto”.
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SALUZZO (CN) – “Ma qui siamo ancora in Piemonte?” Basta scavalcare un muretto alto mezzo metro per entrare in un delirio di cartoni, scarpe infangate, pentoloni, bombole del gas e materassi gettati sull’asfalto. Siamo alle spalle del Foro Boario, la fiera delle vacche e dei macchinari agricoli. E siamo anche al centro di uno dei distretti agricoli più ricchi d’Europa. Eppure due ragazzi africani mi mostrano ferite con cuciture da materassaio rimediate al vicino Pronto soccorso. Un altro racconta di un infortunio sul lavoro in fabbrica, una medicazione in ospedale e un conseguente licenziamento in tronco. È l’altra faccia di questo Nord legalitario e serioso.

Ibrahim adesso è sfiduciato. Solo poche settimane fa ha gridato la sua rabbia dal palco del concerto cuneese di Manu Chao, ora dorme nella branda di un tendone messo su alla buona. Con ironia, lo hanno ribattezzato la maison blanche. A pochi passi un edificio in cemento rimane inspiegabilmente chiuso. E vuoto. Come chiuso e vuoto era il cubo di cemento alla stazione. Gli africani dormivano fuori, sull’asfalto e di fronte ai binari. Poi la stazione è stata sgomberata e l’edificio distrutto dalle ruspe. “Al sud gli sparano ma non tengono le porte chiuse. Qui è l’esatto contrario”. Così una calabrese emigrata in Piemonte riassume le differenze tra i due estremi del Paese. Anche Ibrahim non ne può più di percorrere l’Italia da un capo all’altro e trovare le stesse situazioni. In fondo è un semplice bracciante agricolo. La raccolta di pesche e kiwi non può essere un’emergenza umanitaria. Sono stanchi gli africani (“Altri due anni e poi molliamo”) di vertici in Prefettura, “emergenze” che si ripetono ogni anno, tendopoli, sgomberi più o meno concordati. E di imprenditori che scaricano sulla Caritas i costi aziendali.

“Qui è come Rosarno” dicono i ragazzi. E indicano i cartoni buttati sull’asfalto, tre bagni chimici montati nell’angolo, un paio di tappeti orientati verso la Mecca per la preghiera del pomeriggio. Sono appena arrivati e si pone il problema della fiera bovina. “Non ci dicano che è stata una emergenza imprevedibile”, ironizzano quelli del comitato antirazzista. “Si tiene dai tempi del Marchesato di Saluzzo”. “Non si tratta di improvvisazione”, ci spiega l’assessore Marcella Risso. “Il fatto è non ci sono fondi per i progetti”. Poi dopo la fiera arriva un assaggio d’inverno. “Rischio ipotermia”, decreta la Croce Rossa. In poche parole, qualcuno può morire di freddo. Un paio di tendoni scongiurano l’eventualità. La Protezione Civile non ritiene invece che ci sia un’emergenza. Si pone il problema dei tendoni. Finito il gelo, andrebbero smantellati.

Nel frattempo un fornelletto e una bombola a gas bastano a cucinare una specialità della Costa d’Avorio a base di frutto di palma. Non c’è acqua né corrente elettrica. Ma non siamo nel ghetto di Foggia, la Francia dista meno di 30 chilometri. Circa 600 persone arrivano ogni anno con i flussi stagionali, sembra un miracolo.

Altrove sono l’occasione per truffe e viaggi farsa di lavoratori già presenti in Italia. Poi tre anni fa una decina di braccianti bussò alle porte della Caritas.

La scorsa stagione furono un centinaio e si arrangiarono alla stazione, pure tra i vagoni di un treno deragliato o sotto la tettoia del binario uno. Quest’anno sono il doppio. Sembra quasi un problema di decoro urbano per questo centro algido e borghese. Arriva lo sgombero, quindi la sistemazione al Foro Boario e in altri piccoli centri. Per evitare le concentrazioni che dopo Rosarno tanto spaventano il Ministero dell’Interno. Per maggiore sicurezza, il magazzino della stazione è stato distrutto dalle ruspe e lo spiazzo chiuso coi lucchetti.

Qualcuno ha trovato sistemazione presso la casa del custode del cimitero. Più che dignitosa rispetto agli accampamenti. Ma con vista sulle tombe e con – in giardino – un carro funebre vecchio di secoli, tutto in legno e con ruote da carrozza. Qualcuno ha avuto paura di stare lì, tutti gli altri sono contenti di avere un pavimento e acqua corrente.

Ghetto export

Ogni anno – a partire da maggio – centinaia di braccianti stranieri arrivano nella zona. Sono africani da tempo in Italia, ma anche rumeni, polacchi e cinesi che arrivano, lavorano e vanno via. La maggior parte trova alloggio – come del resto prevede la legge – nelle masserie di chi li assume. Ma c’è una quota che non viene “accolta”. Tutti insieme movimentano centinaia di migliaia di quintali di frutta destinati in gran parte al mercato tedesco.

Tranne qualche rarissima eccezione, hanno tutti in tasca un permesso di soggiorno e un contratto di lavoro. Chi non è in regola non viene qui. Due migranti senza documenti sono stati prelevati, portati al CIE di Torino ed espulsi a tempo di record.  Erano vittime di una truffa, peraltro. Arrivati con un falso contratto di lavoro – costato 4mila euro – e “accolti” dall’assenza del datore di lavoro che si era prestato all’imbroglio. “Fino a poco tempo fa le imprese mettevano a disposizione le cascine”, ci dicono gli attivisti del locale “Comitato antirazzista”.

“Durante la stagione delle raccolte era normale offrire un tetto agli italiani. Oggi i lavoratori stranieri devono fare da soli”. Oppure provare ad affittare una casa. Perché non ci riescono? Un’ora di raccolta è pagata 5 euro l’ora. Senza inquadramento regolare non si lavora tutti i giorni del mese. Chi manda i soldi a casa tende a risparmiare il più possibile, altrimenti il progetto migratorio non avrebbe più senso. L’affitto di una cascina arriva a 200 euro, in paese è molto più caro e la pelle nera si nota. Ti chiedono molti mesi di caparra se va bene, altrimenti pretendono un affitto per tutto l’anno, incluse le spese di riscaldamento. Il centro di Saluzzo con decine di sportelli bancari, vialoni alla francese e palazzi storici sovrastati dalla silhouette delle Alpi è semplicemente inaccessibile. “Questa è una città borghese nel vero senso della parola”, ci spiega Pia, un’altra volontaria del Comitato. “C’è molta diffidenza. Gli africani vanno bene per le raccolte ma devono rimanere invisibili”.

Mino Taricco adesso è consigliere regionale del Pd ma fino al 2010 era assessore all’agricoltura della giunta Bresso. Oggi al suo posto c’è Claudio Sacchetto, leghista e proprietario terriero. “C’è  un problema di organizzazione delle aziende”, spiega Taricco. “Si potrebbe affrontare il problema abitativo tramite convenzioni. In questo momento l’agricoltura non sta attraversando una fase positiva, ma crisi è una parola grossa. Le nostre pesche finiscono in Germania e tutto il Nord Europa, il grosso va sul mercato del fresco. Poi c’è un flusso verso l’industria di trasformazione e i succhi. Il 30% del prodotto viene gestito da cooperative di conferimento che hanno propri uffici commerciali. Agiscono direttamente, si chiamano Piemonte Asprofrut, Ortofruit Italia, Lagnasco Group. Ognuna di loro lavora in media 400mila di prodotto ortofrutticolo l’anno. Un altro 30% viene venduto dai piccoli agricoltori. Direttamente o tramite un agente in Germania o in Olanda. Per piccoli si intendono appezzamenti di 10-15 ettari. Una azienda come quella di Sacchetto, con 40-50 ettari, ha i frigoriferi e fa filiera completa. Il restante 30% è in mano ai grandi commercianti”.

Le difficoltà non mancano Il mercato interno è in forte difficoltà. Ma reggono bene le aziende orientate ai mercati esteri. La raccolta è affidata a due-tremila persone: circa il 30% sono italiani, le piccole aziende hanno ancora manodopera di circuito locale. Si parte a inizio maggio per finire a ottobre. Prima le pesche, poi mele, pere e kiwi.

Me lo dovevi dire prima

L’Italia è un paese sempre più unito dallo sfruttamento in agricoltura. In Piemonte ci sono i controlli ed è molto usato il voucher. Si tratta di un prepagato che si acquista all’ufficio postale, vale per una giornata e include i contributi. Un sistema che sembra perfetto. Ma solo in apparenza. “Io non scrivo i giorni e le ore che ho lavorato. Il padrone fa tutto lui”, racconta Yaya, ivoriano. “Quando ho bisogno di soldi per comprare da mangiare chiedo a lui e me li dà. Mia moglie ha telefonato, ho chiesto e il padrone mi ha dato 100 euro che ho mandato con Western Union. Quando avrò finito di lavorare mi pagherà tutto. Mi dà 5 euro l’ora, avevo chiesto 5,50, ma mi ha detto che non era possibile. Se insistevo faceva lavorare qualcun altro. Sulla busta paga sono segnati sette giorni di lavoro ad agosto e cinque a settembre, ma io ho sempre lavorato, tutti i giorni”.

“Il mio padrone è bravo”, racconta Traoré. “Mi paga 6,50 euro l’ora. Ma sulla busta paga sono segnati solo cinque giorni anche se ho lavorato tutto il mese. Se avessi tutti i giorni segnati riuscirei a prendere la disoccupazione in inverno”. Molti di loro hanno perso il lavoro nelle industrie del Nord colpito dalla crisi. Sono stati i primi a essere licenziati. Una telefonata di un connazionale basta ad aprire una nuova prospettiva. “C’è lavoro lì, vieni anche tu”. Stare fermi significa perdere il permesso di soggiorno. E rischiare l’espulsione. “Qui i carabinieri passano ogni mattina”, ci dicono i volontari. “Alle sei”.

Ma la legalità è spesso a senso unico. Due braccianti africani hanno registrato la telefonata con un padrone di Verzuolo. “Non sono segnati i giorni lavorati giusti”, protestano. “No, sono segnati così, agosto quello è, firma, firma lì”. Sostengono di aver lavorato 33 giorni, sulle carte c’è scritto 12. Il datore di lavoro ammette: “Se volevi tutto dovevi dirmelo prima, io tutto non lo metto. Senti, hai tutte le ragioni, però io non ti posso pagare di più. Però adesso devi firmare”.

Una religione laica

Nelle valli del cuneese la memoria è una religione laica. Nei libri e nei racconti orali, nelle manifestazioni e nei discorsi c’è l’eco della prima e la seconda guerra mondiale, in questa terra di confine fino a poco tempo fa punteggiata da caserme e forti. E ovviamente della resistenza raccontata da Nuto Revelli, Pavese, Fenoglio.

In pochi – invece – hanno voglia di ricordare la povertà e l’emigrazione. Oltre che con le città francesi, i paesi della zona sono gemellati con quelle argentine. Da poverissime vallate i contadini scendevano fino a Genova per inseguire la fortuna dall’altra parte dell’Oceano. Questa è anche la terra dei passeur, gli uomini capaci di fare attraversare clandestinamente il confine agli emigrati italiani. I “disperati” che provavano a passare sotto la neve nel “Cammino della speranza” di Pietro Germi. Il piatto tipico del luogo è la polenta nera, una delle versioni più povere: il granturco giallo era già un lusso. Si cucina in un pentolone e si condisce col sugo (di porro ordinariamente, di carne nei giorni di festa).

Poi dagli anni ’60 arriva il boom e sparisce il ricordo della fame. I vini delle Langhe, i frutteti della pianura. La terra della polenta nera diventa la patria elettiva di Slow Food. Sembrano lontanissimi gli africani, gli immigrati. La questione si risolve troppo spesso con un paio di battute sprezzanti in dialetto stretto. La provincia dei contadini che fuggivano in Argentina ha dato il 24% dei voti alla Lega Nord. E un problema di grave sfruttamento per i “cattivi” diventa questione di decoro urbano, per i “buoni” solo di assistenza umanitaria.

*Ha collaborato il Comitato antirazzista di Saluzzo

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