SALUZZO (Cuneo) – Dopo lo sciopero di Nardò è stato introdotto nel nostro Codice Penale il reato di “intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro”. Grazie alla lotta dei braccianti africani del Salento, dall’estate 2011 c’è una legge in più a tutela del lavoro. Ma come si definisce il “particolare sfruttamento”? Sono elencate quattro caratteristiche: retribuzioni palesemente sproporzionate, violazioni dell’orario di lavoro, condizioni igieniche pericolose per la salute. L’ultima è la presenza di “situazioni alloggiative particolarmente degradanti”. Il “grave sfruttamento” è anche uno dei criteri che permette di denunciare il datore di lavoro e accedere al permesso di soggiorno, mediante la “sanatoria” appena entrata nella fase operativa.
Quando il legislatore ha definito quei criteri aveva in mente i ghetti del Sud. Rosarno, Foggia, Palazzo San Gervasio. Nessuno poteva pensare che quelle stesse situazioni si sarebbero riprodotte a Saluzzo, provincia di Cuneo, a un passo dal confine francese. Biciclette ammucchiate, capannelli sotto gli alberi, stuoie sull’asfalto. E giacigli di cartone e accampamenti senza acqua e luce. Una situazione che rapidamente è diventata estrema e ha sorpreso le istituzioni locali. Uno sgombero e i trasferimenti concordati, l’intervento di emergenza della Croce Rossa, l’affitto di tendoni. Sono alcuni episodi che hanno accompagnato questa tormentata stagione di raccolta.
Perché ormai da anni in Italia – da un capo all’altro della penisola – raccogliere patate o kiwi diventa emergenza umanitaria, roba da Protezione civile. Ma un po’ tutti – sul fronte istituzionale – rifiutano il paragone con Rosarno. “Qui non c’è caporalato, le paghe sono dignitose e molto è stato fatto per l’accoglienza”.
In ogni caso, uno dei distretti agricoli più ricchi d’Europa non riesce a offrire una sistemazione dignitosa a poche decine di lavoratori. Intorno a loro, frutteti a perdita d’occhio ed enormi quantità di prodotto che i piccoli proprietari conferiscono ai centri di raccolta. La crisi si è sentita, le difficoltà ci sono. Ma c’è anche un comparto produttivo imponente e orientato all’esportazione. La frutta finirà in gran parte sui banconi dei supermercati tedeschi.
Si parte a inizio maggio per finire a ottobre. Prima pesche, poi mele, pere e kiwi nella grande pianura ai piedi delle Alpi. Fino a poco tempo fa le imprese mettevano a disposizione le cascine. Durante la stagione delle raccolte era normale offrire almeno un tetto agli italiani. Oggi i lavoratori stranieri devono fare da soli.
Gli affitti sono proibitivi e c’è tanta diffidenza. “A nessuno di loro piace ricevere assistenza”, dicono gli attivisti del Comitato antirazzista. “Quando telefona un africano, sistematicamente l’appartamento è ‘appena stato affittato’”. “Non affittano ai poveri, non è un problema di colore della pelle”, spiega Marcella Risso, assessore all’integrazione di Saluzzo.
“Da ‘non si affitta ai meridionali’ in avanti, ci sono queste forme di diffidenza nei confronti di chi viene da fuori”, ammette Claudio Sacchetto, assessore all’agricoltura della Regione Piemonte, proprietario di un’azienda frutticola ed esponente della Lega Nord. “Però a noi queste persone non servono”, spiega. “Quelli che hanno lavorato sono stati assunti per aiutarli”.
Altre voci raccontano una storia diversa. “L’80% dei presenti nelle tende ha presentato un contratto di lavoro”, dicono gli attivisti. Non si può accedere all’assistenza istituzionale senza tutti i documenti in regola. Esistono circa 600 lavoratori stranieri che arrivano con i flussi stagionali – il sistema legale di ingresso – e che fanno tutta la stagione, per poi tornare a casa. E ci sono poche decine di altri lavoratori, in genere africani francofoni, che rispondono alle esigenze occasionali. Per esempio le pesche che a luglio devono essere raccolte in pochi giorni. E’ bene chiarire che si tratta di persone da lungo tempo in Italia. Non c’è gente appena sbarcata o “disperata”, come vogliono i luoghi comuni. Operai licenziati dalle fabbriche del Nord Est
“Il padrone ha segnato solo cinque giorni anche se ho lavorato tutto il mese”, denuncia un bracciante africano. Si chiama lavoro grigio. Formalmente è tutto in regola – c’è l’apertura dell’ingaggio – ma nei fatti si paga meno del dovuto. La legalità vale da una parte sola. “Due ragazzi che erano stati truffati in Tunisia hanno pagato 4mila euro”, raccontano i volontari del Comitato antirazzista. “Ma in Italia non hanno trovato nessun lavoro. In Piemonte – dopo un controllo – sono stati trovati senza permesso di soggiorno, portati al CIE di Torino ed espulsi in pochi giorni”.