Caro A.,
ti conosco molto tramite tuo fratello e un tuo caro amico, ma noi ci siamo incontrati solo una volta, sull’Avenue Bourghiba, a giugno. Sapevo già che non mi avresti stretto la mano. Quindi non l’ho tesa. Mi bastava poterti guardare negli occhi, che ho scoperto essere pieni di luce, non coperti dalla barba né da veli. Sono stati pochi minuti. So solo che dopo hai detto a tuo fratello che ti sembravo una persona “chiara, trasparente”. Lo sono, per questo mi convinco a scriverti.
Ti scrivo perché non posso fare altro che confrontarmi con te, l’unico salafita che conosco direttamente, perché mi è venuto difficile avvicinarmi a Tunisi ai salafiti appena usciti dalla moschea. Forse i miei capelli, forse l’abbigliamento, percepivo che qualcosa li allontanava da me. Ma io avevo e ho tante domande.
Ho conosciuto l’Islam e ne sono rimasta affascinata tramite le persone che amandolo, vivendolo e praticandolo, me ne han fatto conoscere la bellezza. Non ho mai conosciuto personalmente l’Islam che oggi è su tutte le pagine di giornale. L’ho descritto anche io così quando minacciava di morte gli artisti a Tunisi, ma non sono mai stata cieca dall’identificare dei gruppi estremisti strumentalizzati con i milioni di persone che, come il profeta Muhamamd, mangiano la frutta prima di ogni pasto. Perché così faceva il profeta.
Mi chiedo perché lo stesso numero di persone non scenda in strada di fronte le ambasciate e le scuole quando si è scossi dalla notizia di un naufragio in mare che ha ucciso settantanove tunisini, e qualche giorno prima cinquanta siriani nel mare di fronte la Turchia. Perché non è altrettanto rumoroso per demonizzare l’Occidente quando uccide i vostri fratelli con le politiche assassine della frontiera. Mi chiedo come non esploda la rabbia per i capi di governo “fratelli musulmani” che massacrano i propri cittadini e fratelli, come succede in Siria. Mi chiedo perché se anche tu sei consapevole che l’Islam vero non è quello che uccide, perché non vi “ammazzate” per cambiare questa minoranza che si fa ingiustamente vostra portavoce.
Io sento un’altra voce. Sento ancora la voce, il suono, la musica del primo Imam che nella mia prima notte a Damasco mi ha svegliato per il suo appello alla preghiera. E quella chiamata altrove in futuro mi sarebbe mancata. Quella dimensione avvolgente, totale che “regola” o meglio accompagna la vita di ogni musulmano, che inchinandosi cinque volte al giorno non ha voglia di uccidere. Ricordo ancora i consigli per lavarsi, per mangiare, per amare una donna che mi han detto essere contenuti tra i detti del profeta. Mi han parlato dell’Islam, l’ho studiato, ma molte più volte l’ho sentito. Ho sentito quella serenità che dà il proprio credo, tramite tutti i musulmani che ho conosciuto in Italia, in Siria, in Francia, in Libano, in Palestina, in Egitto, in Giordania, in Tunisia e… a Lampedusa. Quelli che volevano parlarmene e quelli che sentivano che avevo già capito, anche se non è il mio credo.
Avevo letto di quel filmaccio americano che ora ha scatenato questo caos. E mi aspettavo pure che accadesse, non sapevo che si organizzassero per l’11 settembre. Quell’11 settembre che ha indotto molti musulmani in Europa a ridiventare praticanti dopo aver lasciato da mesi o da anni il proprio paese. O senza esserci mai nati. Per me scorrono altri anniversari neri. Per esempio quello del massacro di Sabra e Shatila in Libano, il 16 e 18 settembre di trenta anni fa. Ma neanche i salafiti possono occuparsi ancora alla causa palestinese. Desueta in tutte le agende.
Rinuncio a stringerti la mano. Posso rinunciare, sapendo che i salafiti non la stringono alle donne. Vorrei poter essere non soltanto una donna o non innanzitutto una donna per stringertela. Rinuncio a stringertela per rispettarti nel tuo credo, ma non rinuncio a volerti incontrare e guardarti negli occhi. Torno in Tunisia per farlo, rispondendo a chi continua a dirmi: «Che ne pensi di quello che succede in Libia? E la Tunisia? Non tornarci mica!». Ma non rinuncio a credere che la musica si possa suonare per strada a Tunisi come in Spagna, in casa come accanto a una moschea. Non ho mai amato tanto il teatro come quando nel campo profughi di Jenin, il più conservatore in Palestina, erano dei diciottenni a raccontarlo rischiando la vita. La danza in Palestina che supera il muro. Che già lo avrebbe forse superato, se anche le energie dei fondamentalisti fossero indirizzate in tal senso, che non dovrebbe coincidere col sangue.
In questa settimana in Italia ci saranno delle manifestazioni di commemorazione e denuncia per i morti in mare. Nella mia città si è scelto di vestirsi di nero, in lutto, portando un grande striscione nero. Anche la bandiera salafita è nera e quest’anno è stata sventolata parecchio dalle tue parti. Mi chiedo quando la nostra bandiera di lutto per i fratelli in mare possa essere accanto al nero della vostra corrente islamica. Se il vostro nero non è la morte, spero possa anche ricordare senza uccidere le morti altrui.
Un abbraccio, anzi no scusa. Non potresti. Un saluto caro.
* Marta Bellingreri ha lavorato a Tunisi dove ha vissuto i mesi pieni di fermento del post-rivoluzione. In Italia è stata operatrice umanitaria ha Lampedusa.