Pubblicato su Elle
ZANZIBAR – Dimenticate il reef e i ritmi indolenti di Stone Town, il Mnazi Mmoja Hospital di Zanzibar è una costruzione zeppa di persone, fuori dai percorsi turistici. Passato l’arco d’ingresso c’è la One Stop Center Unit, un consultorio organizzato da Unicef e Save the Children che si occupa di abusi sessuali sui minori. Nella prima stanza, con la porta socchiusa, stazionano i poliziotti che per primi accolgono chi sporge denuncia. Poi ci sono i dottori per gli accertamenti del caso (test dell’Hiv in primis) e il colloquio con gli psicologi.
«Su 23 milioni di minori qui vengono denunciati 138 casi al mese, di cui sette o otto riguardano il reato di sodomy», dice una psicologa con il capo velato, come quasi tutte le donne sull’isola a maggioranza musulmana. Nel paese la violenza sessuale è punita fino a 35 anni di carcere. Motivo per cui il capo tribù di solito paga il silenzio della famiglia della vittima. Lo scopo di questo servizio è fornire un’alternativa alla giustizia fai-da-te con cui s’intende mettere il silenziatore anche alla sofferenza psichica del bambino. Al primo piano dello stesso ospedale ci sono i casi di malnutrizione grave.
Uno o più kanga (tessuti colorati tradizionali) al posto delle lenzuola, e una fascetta di carta con cui si misura la circonferenza del braccio del bimbo. Se raggiunge la “zona rossa” significa che è nella fase acuta grave. Per essere sano un neonato dovrebbe crescere dalla nascita mezzo chilo ogni mese. Qualcosa non è andato per il verso giusto nel caso di Mariam, 32 anni, e di suo figlio Salum: 6 mesi e 4 chili. «Volevo allattarlo al seno – racconta lei – ma non riusciva a succhiare per via della stomatite, e ora non ho più il latte». Il problema è che le mamme allattano al massimo per due settimane, poi devono tornare al lavoro e a occuparsi degli altri figli.
Pur sapendo che il breastfeeding è la miglior protezione immunitaria per i figli sono così stanche che preferiscono dar loro il porridge, una mistura diluita con acqua infetta di avena, tè, radici ed erbe mediche che – si crede – allontanino gli spiriti maligni. Dal 2009 grazie all’Unicef in questo reparto sono stati salvati 200 bambini, alimentati prima con i latti terapeutici e poi con il PlumpyNut, una specie di nutella ipernutriente a base di farina di arachidi. Fintanto che non recuperano peso, mamme e neonati rimangono ricoverati in questi stanzoni giorni, mesi, parentesi vuote in mezzo a una vita che si speri torni a ingarbugliarsi come prima del ricovero. Nelle zone rurali i casi di malnutrizione sono anche più gravi, a causa delle grandi distanze da percorrere a piedi.
All’ospedale Makundichi Cottage, nel sud dell’isola, incontriamo una nonna (la mamma è morta di parto) di 39 anni che aspetta paziente il suo turno. Una volta a casa sarà affiancata da volontarie, ribattezzate Corps e formate dal Governo, le uniche in grado di convincere le altre donne del villaggio dell’importanza di una dieta bilanciata. Accanto a lei sulle panche dell’ospedale c’è anche Malaika, in fila per la vaccinazione contro il tetano neonatale, chiamato killer silenzioso per il fatto che è dappertutto, nella polvere, sui machete con cui si taglia il cordone ombelicale nei parti in casa (ancora al 50%). Nonostante in Europa e nei Paesi industrializzati il tetano non rappresenti più un pericolo da molto tempo, in 39 paesi del sud del mondo 130 milioni di donne e i loro neonati, durante il parto, rischiano di contrarre questa malattia che a tutt’oggi causa la morte di un bambino ogni 9 minuti. Morti assurde per il semplice fatto che potrebbero essere evitate con due semplici vaccinazioni durante la gravidanza. A differenza di altre mamme africane Malaika, per fortuna, non crede a chi dice che vaccinarsi contro le malattie possa far ammalare di “cristianità” i musulmani come lei.
Il futuro comincia dai banchi di scuola
Sopravvissuti al porridge, al tetano e alla legge del più forte i bambini che frequentano la scuola sembrano essere la maggioranza, almeno a guardare le aule spoglie della Kidongo Chekundu e della Kijituple School di Zanzibar, dove in ciascuna classe siedono sul pavimento, dignitosamente in divisa, dagli 80 ai 180 studenti. Ma se le aule sono affollatissime, le file davanti al bagno lo sono ancor di più: in alcuni casi c’è un solo buco nel terreno per 600 bambini. Non stupisce che tra i motivi dell’abbandono della scuola da parte dalle adolescenti ci sia l’impossibilità di potersi cambiare durante il ciclo.
Scopo della nostra delegazione in queste scuole è consegnare 50 mila libri illustrati sull’igiene femminile, a cominciare da quei “giorni lì”, oltre a pacchi di assorbenti Always (speriamo non un augurio!). In mancanza di libri di testo una maestra bella come una regina del deserto fa ripetere ai bambini singole frasi in inglesi, in un un’altra gli alunni cantano in coro con tutto il fiato che hanno in gola l’alfabeto arabo che imparano prima dello swaili, la lingua ufficiale. Gli insegnanti hanno un ruolo difficilissimo: aprire un varco nell’ignoranza delle tradizioni tribali. E non sempre i genitori si privano volentieri di un aiuto nel lavoro mandando i propri figlia a scuola.
Ma se provi a domandarglielo le risposte sono molto diplomatiche, come quella Yosuf, padre di 10 figli che vive nel villaggio di Nanguruwe nel sud della Tanzania. «La scuola porta cose più o meno positive. Il fatto di insegnare ai bambini a lavarsi le mani, per esempio, aiuta tutta la famiglia a difendersi dalle malattie, anche se le divise delle ragazze hanno le gonne troppo corte e i ragazzi i pantaloni troppo calati». La scuola è anche uno dei rari posti dove la diversità ha dignità di cittadinanza.
All’istituto privato St Anna Marie di Dar Es Salaam, per esempio, studiano fianco a fianco bambini neri e albini. Se lasciati nei villaggi di provenienza, infatti, questi ragazzini dalla pelle bianca e i lineamenti africani potrebbero far la fine dei 58 cadaveri ritrovati, negli ultimi due anni, orrendamente mutilati al confine con il Burundi. Da qualche anno si è sparsa la raccapricciante voce che gli stregoni riescono a produrre pozioni miracolose con gli organi di questi corpi “prodigiosi”.
Per gli 8 mila albini tanzaniani al rischio di cancro alla pelle per la scarsa pigmentazione si aggiunge un’emergenza ancor più preoccupante: l’emarginazione. La stessa che accompagna i ragazzi di Zapha + un’associazione nel centro storico di Zanzibar per bambini malati di Aids o che hanno perso i familiari per lo stesso motivo. Per qualche ora al giorno qui trovano ascolto, farmaci e talvolta un’occupazione (al momento lavorano a un programma radiofonico dove raccontano le loro esperienze). Ci accolgono cantando Welcome, welcome in una stanza con le lamiere al posto del tetto e le stuoie di plastica per terra. Mussafah, 35 anni responsabile del progetto, scandisce il ritmo. «Prima facevo l’insegnante – spiega – poi dopo aver visto un ragazzino buttato in un pozzo dagli amici, per il semplice fatto di avere l’Aids, ho capito: kama kweli unampenda vitamlinda». Se ami qualcuno lo devi proteggere.
Trenta chilometri dal più vicino ospedale
Arriviamo nel distretto di Mtwara, al confine con il Monzambico, dopo esser atterrati all’omonimo aeroporto, provvisto di ben due gates e una vip lounge. Intorno solo terra, baracche intermente brandizzate con la pubblicità dei telefonini e arbusti. Prima tappa al dispensario di Nunguruwe, 40 capanne e una scuola. Dopo la consueta firma del registro ufficiale ci aspettano sotto il sole gli abitanti del posto divisi a gruppetti: il consiglio della comunità in carica «che nel rispetto delle quote rosa prevede una presenza femminile al 50 per cento», come spiega il capo villaggio; i volontari, i pazienti da vaccinare e il gruppo delle mamme bambine.
Una di loro, Tatu è rimasta incinta a 11 anni, non è mai andata a scuola e non si aspettava certo quel che le è accaduto. Ha lo sguardo fisso e impietrito al solo ricordo di quando, alla brutta notizia, la famiglia l’ha cacciata di casa. Del padre del bambino neanche a parlarne. Si sono visti una sola volta, nel negozio del noleggio dvd. Quando le chiediamo se ha mai pensato di abortire dice a monosillabi che «è più difficile ricorrere all’aborto che aspettare la fine dei nove mesi». Per partorire bisogna andare all’ospedale di Mtwara a un’ora di distanza in auto.
E se nel villaggio, tra le strade di sabbia e le capanne arredate con i manifesti elettorali la situazione è disperata – anche se ben organizzata – qui non lo è poi tanto di meno. Nelle stanze del reparto maternità al momento c’è una ragazza con le doglie e una che ha partorito da appena un’ora. Mosa è la quarta figlia di questa ragazza, quasi inespressiva per la stanchezza. Su letto accanto è seduta una donna con lo sguardo vuoto e nessun fagottino accanto. «È venuta a partorire un figlio nato morto all’ottavo mese di gravidanza», dice la dottoressa passando oltre, alla Kangoroo Baby Room la stanzetta dei prematuri.
C’è una mamma con un bambino di sette mesi e sette etti. Ha un cappellino in testa ed è stretto da un fascia di tessuto tra le tette della mamma (da qui il riferimento al canguro). In assenza d’incubatrici l’unico modo per sperare di fargli prendere peso è il calore materno. Un manifesto alla vita che resiste, perché come scrive il premio Nobel per la Pace 2044 Wangari Maathai nella Sfida dell’Africa (edito da Nuovi Mondi): “in tutte le analisi dei problemi dell’Africa, c’è una risorsa naturale che spesso non viene apprezzata: gli africani stessi.”