Pubblicato su Nigrizia
C’era una volta… “Capitan Highway”. Un bambino di 8 anni al massimo che davanti alla telecamera di un programma di Raitre dal titolo appunto C’era una volta… raccontava la sua esperienza di baby soldato in Sierra Leone. Con le guance paffute e gli occhi neri persi nel vuoto raccontava come, prima di amputare una mano, un naso, o una gamba, le milizie del Ruf (Fronte Unito Rivoluzionario) che lo avevano costretto a unirsi ai loro massacri gli facessero estrarre a sorte un bigliettino con su scritto la parte anatomica da mozzare.
Quel bambino dallo strano nome di battaglia oggi è diventato uno spilungone che studia per diventare giornalista. Un progetto – la sua sopravvivenza – reso possibile dall’iniziativa paziente e inesorabile di un missionario vicentino dell’ordine dei Saveriani che vive in Sierra Leone da oltre 40 anni. Padre Berton, “Bepi” per gli amici, abitava già da anni nel Paese quando scoppiò la guerra civile, iniziata nel 1991 e terminata nel 2001 o 2002.
Non stupisce quindi che Berton, 80 anni e una laurea in filosofia in tasca, sia diventato uno dei punti di riferimento di quanti in quegli anni di atrocità cercassero un posto dove mettersi al sicuro. Un posto per accogliere non solo le vittime mutilate (curate e ospitate principalmente nella Casa dei padri Giuseppini) ma anche i carnefici bambini, doppiamente vittime. Il Movimento Case Famiglia (Family Homes Movement) di padre Berton, finanziato inizialmente dall’Unicef e dal Ministero delle Opere Sociali, nasce nel 1985. Nel suo primo centro di accoglienza di Lakka, a pochi chilometri da Freetown, sono stati accolti dapprima minori abbandonati e poi a cavallo della guerra circa tremila bambini soldato, tra cui Capitan Highway.
«Ci sono due modi per avvicinarsi a questi ragazzi: andare verso di loro restando uno straniero a vita, oppure accettare la convivenza, quella fisica non teorica», racconta padre Berton nel documentario La vita non perde valore della filmaker Wilma Massucco, che racconta la vita di alcuni ex baby soldati dalla fine del conflitto a oggi. Oltre al missionario nel video raccontano la loro storia Sisqo («ho visto i ribelli squartare donne incinta e scommettere sul sesso del feto»), Tejan, costretto a stare in una buca a digiuno per giorni, e Betty che per acquisire più forza si cospargeva «la faccia con il sangue delle sue vittime».
«Gli ex bambini soldato sono solo la punta dell’iceberg del maltrattamento infantile in Sierra Leone, dalla mancanza di accudimento all’esposizione prolungata ai traumi. In realtà anche i loro coetanei, che non hanno mai impugnato un machete, manifestano sintomi simili. Si sta parlando di un’intera generazione di giovani incapaci di stabilire rapporti basati sull’affettività, perché chi non ha ricevuto amore non può offrirlo», spiega lo psicologo Roberto Ravera, direttore della Asl 1 di Imperia, che due volte all’anno vola a Freetown per collaborare con il Fhm nel recupero psicologico di questi ragazzi.
Il programma di reinserimento consiste nel ricevere assistenza medica, psicologica, un’istruzione di base e i primi rudimenti di un mestiere, secondo quella che il dottor Ravera chiama “la presa in carica globale”, l’unico modello di riabilitazione capace di restituire loro la dignità. Il passo successivo è la convivenza in famiglia, la propria se ancora esiste oppure in un sistema di case famiglia che il Fhm ha creato via via nel tempo con alcune ong tra cui Edus, in cui genitori “volontari” si prendono cura in contemporanea dei propri figli e di questi minori dal passato traumatico.
Al momento il problema non è più il loro passato, bensì il futuro. Terminata la fase degli aiuti umanitari, cui moltissime organizzazioni hanno preso parte, oggi l’emergenza si chiama educazione. Per questo motivo a Mayenkineh, nella periferia est della capitale, sono nate nel 2004 la Holy Family School e nel gennaio 2008 la Holy Family Vocational School, sostenute da Avsi, dal Ministero
degli Esteri italiano e dalla Banca Mondiale sempre in collaborazione con il partner locale Fhm. Obiettivo: arginare il disagio giovanile, favorire la scolarizzazione e fornire una formazione professionale ai giovani che vivono nelle aree emarginate della capitale. Il primo insostituibile mattone per la ricostruzione di un intero Paese.