Inchiesta / Protezione civile. Lo stato di emergenza “Nord Africa”

I miracoli di “Santa Emergenza”, 500 milioni a pioggia per la guerra dell’anno scorso

Antonello Mangano
  Da febbraio 2011 (e almeno fino a dicembre di quest`anno) l`Italia è in stato di emergenza per 20mila profughi della guerra in Libia transitati da Lampedusa. La Protezione civile ha creato un sistema parallelo di accoglienza, affidandolo – senza gare – a strutture private. Mancano i controlli e nel Lazio arrivano i primi scandali. Un viaggio tra ruberie e strutture fatiscenti, migranti che spalano la neve, procedure lentissime, rivolte e sassaiole. Le operatrici denunciano: “Siamo mamme, amiche, guardiane”. E precarie.
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ROMA – Cinqueceventomilioni di euro. E’ costata tanto a tutti gli italiani la cosiddetta “emergenza Nord Africa”. Almeno finora. Funziona così: la Protezione Civile nomina per ogni regione un “Soggetto Attuatore”: quasi sempre un funzionario della stessa Protezione Civile (dunque una sovrapposizione di compiti), a volte uno della Prefettura. In Toscana ci sono dieci “attuatori”. In Campania uno, ma è l’assessore ai Lavori Pubblici.

Il “Soggetto Attuatore”, a sua volta, sceglie il “Soggetto Gestore”. “Ci siamo candidati perché c’era una procedura d’urgenza”, spiega Claudio Bolla, dirigente del consorzio “Eriches” che gestisce alcuni centri nel Lazio. “Alle strutture è stata richiesta una disponibilità di posti. Noi che eravamo già conosciuti abbiamo presentato la nostra offerta. La parte del leone la fanno le strutture cattoliche, noi siamo di area PD. Abbiamo una storia, siamo conosciuti sul territorio, rinomati. E’ stato naturale chiederci se avevamo strutture da mettere a disposizione”.

Ogni migrante costa 42 euro al giorno, 80 se minore. Agli africani vengono distribuiti beni di prima necessità e un pocket money di 2.50 euro al giorno. Spesso si tratta di un voucher che può essere speso solo negli esercizi commerciali con cui il gestore ha concluso delle convenzioni. L’emergenza dovrebbe essere una sospensione di procedure, controlli e garanzie finalizzata alla risoluzione rapida di un problema. In Italia non è mai così. Con il sistema emergenziale tutti – tranne i migranti – hanno oggettivamente interesse a prolungare l’ospitalità. “Le giornate passano tra la noia e la tensione per l’incertezza sul proprio futuro”, ci racconta un operatore del Lazio. “Non mancano i comportamenti aggressivi tra loro e con noi, alternati con gli infantilismi tipici di chi si abitua all’assistenza”.

Dieci mesi

I migranti attendono il responso delle “Commissioni” sulla loro domanda d’asilo. Oltre la metà ha già ricevuto un diniego. Si stanno creando migliaia di irregolari senza possibilità di riemersione. Nonostante questo, da qualche giorno il governo ha presentato il nuovo decreto flussi stagionali: porte aperte per 35mila nuovi ingressi.

“La risposta arriva nel giro di 6-7 mesi”, spiega Bolla. “Se c’è il ricorso passano in media altri 3 mesi. Se lei chiede alle istituzioni, dicono: le associazioni che curano l’accoglienza non preparano la documentazione in tempi rapidi. Invece i nostri ragazzi sono seguiti da uno staff qualificato e nel giro di sei mesi hanno la prima risposta”.

Intanto le OPCM (Ordinanze della Presidenza del Consiglio dei Ministri) si susseguono. La prima fu firmata da Berlusconi (12 febbraio 2011), l’ultima da Monti il 30 dicembre 2011. Ognuna ha aggiunto una manciata di milioni alle casse della Protezione civile ma anche al finanziamento di misteriosi accordi tra Italia e Tunisia, al ministero della Difesa per costi di sicurezza e trasferte dei militari. Persino alle navi che hanno pattugliato il braccio di mare nei pressi di Lampedusa. Lo stato di emergenza è stato prorogato al 31 dicembre di quest’anno anche se la guerra in Libia è finita da un pezzo e non si registrano più arrivi di massa.

L’italiano medio è convinto che questi soldi servono ad assistere gli stranieri. Invece sono numerose le proteste dei migranti che vogliono conoscere in tempi rapidi il loro destino. Rivolte violente nei CARA di Bari, Crotone e Mineo (con blocchi stradali e sassaiole) e tensioni a Falerna e Cetraro, in Calabria. Non protestano di certo i furbi abili ad inserirsi in questo circuito. In molti sospettano che i centri di accoglienza per minori siano diventati un business. Non è facile stabilire l’età di un africano. Ci sarebbero – specie nel Lazio – enti che hanno gonfiato il numero di minori presenti per ottenere la doppia diaria prevista in questi casi.

Nella rete troviamo anche chi lavora con scrupolo e persone capaci. Ma la gestione privatistica e l’assenza di controlli sembrano fatti apposta per favorire i disonesti. Le verifiche sono in buona parte affidate al “team di monitoraggio” della Protezione civile, “impegnato a visitare alcune strutture di accoglienza”. Le spese si rendicontano con un foglio Excel. “Emergenza significa che il privato può fare quello che vuole”, dice un altro operatore. Tutto legale, anche perché la legge ordinaria è sospesa. I giuristi lo chiamano “stato di eccezione”. Rispetto ai tempi di Bertolaso, la Protezione civile è cambiata solo in parte. Rimangono le emergenze e l’aggiramento delle regole, ma i soldi arrivano a pioggia anziché alla “cricca”. Quasi una manovra anticrisi a favore di albergatori, laureati disoccupati, operatori del sociale.

Il caso più grave, finora, è quello di Roccagorga. Siamo nel pontino: quarantasei immigranti erano ammassati in 90 metri quadri in condizioni igieniche al limite della sopravvivenza. “Latina come Rosarno”, annotava il giornale locale. Mangiavano un piatto di riso al giorno e non avevano assistenza sanitaria. La onlus assegnataria aveva a disposizione la solita diaria di 42 euro per ciascun ospite, ma ne spendeva più o meno cinque. La truffa contestata sfiorerebbe il milione di euro. Dopo una segnalazione del monitoraggio del Ministero e della Protezione civile, i carabinieri effettuavano un primo blitz nell’estate 2011, per poi arrestare cinque persone lo scorso gennaio. Tra loro il presidente della cooperativa, consigliere comunale a Sezze in quota PdL. In questi mesi i profughi venivano spostati come pedine da un appartamento all’altro, senza che la convenzione venisse revocata. Agli atti dell’indagine anche un tentativo di intercessione politica.

Sui monti

I profughi sono stati dislocati in tutta Italia, dalle Dolomiti al Pollino. Dalla Sila a sperduti paesi calabresi. Dalla Piana di Catania alla cintura romana. Dall’hinterland milanese alle città del Veneto. Li chiamano i libici, anche se sono nati a sud del Sahara. Lavoravano nel paese di Gheddafi fino a quando la guerra li ha costretti alla fuga. Li hanno sistemati in appartamenti e palazzine. E spesso alberghi. “Se le strutture non risultano sufficienti il Soggetto Attuatore, normalmente attraverso Federalberghi,  si rivolge a enti privati che possano garantire gli stessi servizi delle strutture che abitualmente accolgono migranti”, dice a Linkiesta la Protezione civile.

“Hanno creato un sistema di accoglienza parallelo e di serie B”. Così un’operatrice di un centro per richiedenti asilo commenta quello che è successo. L’allora ministro dell’Interno, Maroni, parlò di “invasione biblica”. E’ stato predisposto un piano per 50mila persone. Oggi l’Italia ospita appena 21.257 rifugiati (in Tunisia ce ne sono 290mila). Lo stato di emergenza è stato dichiarato quando la rete ufficiale esistente – Cara e Sprar – era satura.  Ma si tratta di un circolo vizioso: è la lentezza delle procedure che crea saturazione.

Il problema riguarda anche i lavoratori italiani. Molti operatori, dopo un lungo percorso di studi universitari, sono umiliati dal lavoro precario. Ci spostiamo in un centro nei pressi di Tivoli. Qui incontriamo un’operatrice. Ci chiede di rimanere anonima, perché tra ricevute di prestazioni occasionali e contratti a progetto il suo posto di lavoro è appeso a un filo. “Siamo altamente qualificati, ma le nostre competenze non servono”, spiega. “Il lavoro che ci chiedono è quello di guardiani. Non a caso quelli che lavorano nel nostro centro sono principalmente maschi, non parlano inglese e non hanno alcun interesse riguardo le problematiche che coinvolgono i richiedenti asilo”.

Le convenzioni regionali prevedono alcuni servizi basilari per i richiedenti asilo (assistenza sanitaria, mediazione culturale, etc). Ma solo in teoria. In un altro centro ci dicono che gli operatori chiedono ad amici medici, avvocati e insegnanti di venire a lavorare gratis, per dare una mano. Qualcuno ha deciso comunque di impegnarsi: “Oltre a svolgere il ruolo di mamme, sorelle, amiche e guardiane, siamo anche medici, avvocati, insegnanti e psicologi”.

A spalare

 “Sarebbe un bel segnale rendersi utili nei confronti del paese che li sta ospitando”. Con queste parole, in piena emergenza neve, Romano La Russa invitava 3000 richiedenti asilo ospitati in Lombardia ad armarsi di pala e contribuire a pulire le strade. L’asilo è un diritto internazionale riconosciuto dalla Convenzione di Ginevra e non un regalo di cui sdebitarsi. La proposta del fratello di Ignazio, assessore alla protezione civile alla Regione, è rimasta un’ipotesi sepolta dalle polemiche.

Alle porte di Roma è successo davvero, per tre giorni all’inizio di febbraio. “I richiedenti asilo che spalavano la neve tra Tivoli e Marcellina erano volontari”, ci dice un responsabile dei centri. “La popolazione locale non ha accolto molto bene gli immigrati. Abbiamo chiesto ai ragazzi se volevano dare una mano e loro sono stati ben contenti. Abbiamo regalato le scarpe da lavoro e le pale. Poi che qualcuno abbia voluto regalare qualcosa ai ragazzi… So che qualcuno ha provveduto a ringraziare… Noi peraltro abbiamo fatto firmare una dichiarazione di lavoro volontario. C’è il divieto assoluto di lavorare per chi è nella zona grigia dello status di richiedente. Questo sarebbe stato un motivo per non avere il riconoscimento dello status”.

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