Roma – “Ho cercato un paese per dormire. Sono andata prima in Belgio, poi ho capito che solo nel mio paese avrei ritrovato il sonno. Molte persone mi dicono: attenta alla tua vita. Io mi considero già morta. Ho scritto un libro che si intitola “La morte non mi ha voluta”. Lavoravo come infermiera in una clinica privata. Avevo tre figli e un marito. Lui era già orfano del genocidio del ‘63. Li hanno uccisi tutti. Ho capito che la mia voce in Europa stava diventando debole. Ho deciso di tornare al cuore del problema. Oggi vivo nel quartiere dove ho vissuto il genocidio, tre mesi passati per sfuggire alla morte”.
O, meglio, è stata la morte a passarle accanto. Yolande Mukagasana è una scrittrice ruandese, una sopravissuta. Nei suoi libri tiene viva la memoria di quello che accadde nel ’94. L’ultimo genocidio del secolo scorso. Ha avviato un progetto per ricordare non solo assassini e vittime. “Il mio progetto si chiama ‘Il giardino dei giusti, spiega. “Lo inaugureremo in Rwanda il 30 giugno. Mi piacerebbe che diventasse una foresta. Sarà un albero immenso con i nomi intorno. Sia dei morti che – soprattutto – dei vivi. Al primo posto c’è Jaqueline, la donna hutu (dunque teoricamente nemica) che mi ha nascosto salvandomi. Ci sono anche gli italiani. Antonia Locatelli ha chiamato la comunità internazionale per fermare il genocidio ma è stata uccisa in Rwanda. Molti militari sono morti nel tentativo di fermare gli assassini. Persone come Zura Karuhimbi hanno nascosto decine di persone nelle loro misere case”.
“Il 7 aprile – giorno dell’anniversario – ho invitato i miei vicini ma nessuno ha osato venire. Sono tentata di vendere la mia terra e andare via. Nella mia casa è rimasto un vecchio avocado. Produce frutti bellissimi, ma all’interno troviamo sempre i vermi. Credo che abbia sofferto come me. Cercherò di curare anche lui. Da un dolore infinito ci si può risollevare. Abbiamo il compito di ricostruire il nostro avvenire. Molti dei nostri giovani sono figli degli assassini, ma noi dobbiamo costruire un futuro di convivenza”.
Come la situazione oggi in Rwanda? “Prima c’era solo la Radio delle Mille Colline che dava gli ordini per uccidere. Oggi abbiamo una ventina di radio che diffondono informazione libera. Abbiamo gli orfani e le vedove del genocidio. Io sono una rescapé, una sopravvissuta. Il paese ha ricominciato da zero, non c’era più neanche un apparato giudiziario. Dopo il genocidio si è tornati ai tribunali tradizionali precoloniali. Le banche erano chiuse, i soldi erano stati portati via dai genocidari. Due milioni di profughi si erano rifugiati in Congo. In Rwanda non era rimasto nessuno. Il genocidio non è stato riconosciuto subito. E’ stato istruito il Tribunale internazionale, ma senza risarcimento alle vittime”.
Federigo Argentieri, docente di professore di Scienze Politiche alla romana John Cabot University, mette in evidenza le responsabilità francesi. Cita Mitterand: “Un genocidio in quel paese laggiù non è così importante”. Ricorda l’Operazione Turquoise, spacciata come missione umanitaria ma finalizzata a salvare i responsabili del genocidio. “Alcuni paesi occidentali sono intervenuti in ritardo, altri hanno sostenuto il genocidio e permesso che forse portato a termine”, denuncia Argentieri. “Il generale canadese Roméo Dallaire dell’Onu ha trascorso il tempo – fino all’ultimo – osservando impotente l’ultimo genocidio del ventesimo secolo, senza avere uomini e mezzi per intervenire”.
Scrive Mukagasana: “Mio fratello pose la farina tra le mani e soffiò. Dov’è la farina, Yolande? E’ volata via come i tuoi cari. Tu li perderai tutti. Tuo marito, i tuoi figli. Ma tu vivrai, perché la morte non ti vuole”. La morte ha preso invece David, 10 anni. Lo ricorda uno dei cartelli che le associazioni ruandesi hanno costruito per tenere viva la memoria. Una lastra di metallo per ogni bambino, qualcosa di più di una lapide: Davi Mugiraneza. Sport preferito: il calcio. Attività preferita: far ridere la gente. Sogno: diventare un medico. Le ultime parole: le Nazioni Unite verranno per noi. E’ morto dopo essere stato torturato.