ROSARNO (Rc) – Nel 1996 il settimanale Life pubblicò la foto dei bambini pakistani impegnati a cucire un pallone col marchio Nike. Da allora si sono moltiplicati i casi di grandi marchi sorpresi a rifornirsi in territori dove i diritti umani sono violati. Pensavamo che fossero problemi lontani, ora li ritroviamo a casa nostra. Ma nel frattempo cosa hanno fatto le multinazionali? Sostanzialmente promuovono “linee guida” che vengono sottoscritte dai loro partner. Chi vende a Coca Cola, per esempio, si impegna a non usare lavoro minorile, a proteggere l’ambiente, rispettare i diritti sindacali, mantenere un ambiente di lavoro salubre e non discriminare i dipendenti. Infine a pagare quello che l`azienda definisce “applicable wage”.
Ci sono marchi, invece, che fanno della responsabilità sociale la loro bandiera. Anche Coop ha le sue linee guida. Nel documento si legge che “predilige i fornitori i cui stipendi garantiscono almeno la soddisfazione dei bisogni di base”.
Qual è la differenza tra Coca Cola e Coop? Ci risponde Franco Ciappelli, responsabile della social compliance di Coop Italia. “Il nostro obiettivo non è quello di rescindere un contratto che ha ‘sporcato’ l’immagine sociale del nostro prodotto. Potrei dire: questo lo butto fuori e siamo tutti a posto, così come hanno fatto nel tempo alcune multinazionali del tessile sportivo. Così farei moltissimo danno ai lavoratori. Dobbiamo mantenere il confine sottile tra il nostro potere contrattuale – fare la voce grossa – e il mantenimento del presidio a favore delle figure più deboli della filiera. Dobbiamo esercitare l’autorevolezza, non l’autorità”.
“Non prendiamo le clementine da tutti”, spiega ancora Ciappelli. “La responsabilità sociale è parte integrante del contratto. Facciamo anche verifiche su retribuzione e sicurezza. La piaga è il salario decurtato anche del 40%. Noi pretendiamo la presenza di buste paga e intervistiamo i lavoratori senza la presenza dei titolari. Coop Italia, da qualche anno, ha spostato le produzioni calabresi verso la Piana di Sibari. Non siamo in Svizzera, ma le situazioni sono più semplici da gestire rispetto a Rosarno”.
“Condizioni di lavoro africane, prezzi sudamericani”, si lamenta un produttore calabrese. “Ma siamo in Europa o no? I nostri lavoratori – italiani e stranieri – sono in regola. Vendiamo tramite un grossista che prende dal 12 al 16% di ricarico. Poi loro rivendono a Coop. Firmiamo un accordo di fornitura con cui ci impegniamo a dare la paga minima. Ogni anno abbiamo la visita di un funzionario che si occupa del sistema di qualità Coop. Le clementine, in media, sono pagate 50-60 centesimi. Il costo di produzione è intorno ai 25 centesimi (raccolta, imballaggi, consegna in magazzino). Il guadagno è zero. Sono prezzi da fame. Le arance tarocco sono pagate ancora meno”.
“Qualche volta recepisco queste lamentele”, ribatte Ciappelli. “Posso rispondere che l’entità del contratto è sempre rilevante e che si tratta di progetti di lunga durata. E aggiungo che quando Coop firma un contratto altri produttori si aggiungono. Attenzione, magari prendete una lira in meno però acquisite altri contratti. Perché dove arriva Coop arrivano i distributori internazionali”.
Da due anni l’associazione Equosud sta provando a costruire un’alternativa tramite i GAS (Gruppi di Acquisto Solidale) a partire dalla Piana di Gioia Tauro. Il loro punto di vista è differente. Secondo gli attivisti “la Grande Distribuzione Organizzata governa questo come gli altri gironi infernali dell’agricoltura italiana”.