Analisi. Il governo dei banchieri

Prove (conclamate) di dittatura finanziaria

Andrea Fumagalli
  Quando si tratta di imporre politiche di riordino dei conti pubblici con manovre recessive del tipo lacrime e sangue, i tempi di decisione, in nome dell’emergenza, sono assai rapidi. Quando si tratta, invece, di coordinare politiche di intervento a sostegno dell’indebitamento degli stati colpiti dalla speculazione, allora i tempi si allungano a dismisura.
Condividi su facebook
Condividi su whatsapp
Condividi su email
Condividi su print

1. L’inverno 2011-12 non si preannuncia caldo soltanto sul piano del conflitto sociale-politico, ma anche e soprattutto sul piano dei mercati finanziari e creditizi.

La situazione è aggravata paradossalmente dalla doppia velocità con cui il piano della governance istituzionale ed finanziaria si muove. Quando si tratta di imporre politiche di riordino dei conti pubblici con manovre recessive del tipo lacrime e sangue, i tempi di decisione, in nome dell’emergenza, sono assai rapidi. Quando si tratta, invece, di coordinare politiche di intervento a sostegno dell’indebitamento degli stati colpiti dalla speculazione, allora i tempi si allungano a dismisura.

Tutto ciò non stupisce. Rientra nella solita politica dei due tempi. Un primo tempo di sacrifici, di subalternità alle logiche dominanti del potere economico-finanziario, in attesa di un secondo tempo, che non arriverà mai.  Aspettando la prossima crisi…..

Abbiamo già visto una simile dinamica quando si è costruita l’unione monetaria europea, spacciata ideologicamente come il coronamento del sogno di una unione europea politica e sociale. Niente di più falso e oggi ne vediamo i perversi effetti. All’epoca, inizio anni ’90, l’ineluttabile necessità di ottemperare ai parametri di Maastricht (l’”emergenza di entrare in Europa”) ha segnato il turning point decisivo per la svolta nelle politiche di distribuzione del reddito (un travaso “istituzionalizzato” dai redditi da lavoro ai redditi da capitale) e per l’avvio irreversibile del processo di precarizzazione del lavoro e della vita. Oggi, l’emergenza  si chiama crisi del debito sovrano (l’”emergenza di restare in Europa”). E si tratta di una situazione  che, a differenza di quella dei primi anni ’90, vede un vuoto di azione a livello istituzionale europeo.

I motivi che stanno alla base del costante gap decisionale delle autorità istituzionali europee e mondiali si possiamo riassumere nella volontà politica di “non decidere” (“laissez faire”). Con riferimento all’Europa, le istituzioni politico-istituzionali (Bce, Ecofin, Commissione Europea) hanno del tutto perso quella (scarsa) autonomia che potevano vantare qualche decennio fa. Nonostante le dichiarazione di Barroso (l’ultima pochi giorni fa, 21 novembre, tese a dimostrare la volontà della politica europea a risolvere la crisi, magari introducendo titoli pubblici europei (Eurobond) in grado di sostituire i titoli di stato nazionali), le istituzioni europee continuano ad essere docili strumento rispetto alle compatibilità dettate dall’oligarchia finanziaria e dalle (colluse) società di rating.

 

2. Il biopotere dei mercati finanziari si è grandemente accresciuto con la finanziarizzazione dell’economia. Se il Prodotto interno lordo del mondo intero nel 2010 è stato di 74 trilioni di dollari, la finanza lo surclassa: il mercato obbligazionario mondiale vale 95 trilioni di dollari, le borse di tutto il mondo 50, i derivati 466 (otto volte di più della ricchezza reale). Tutto ciò è noto, ma ciò che spesso si dimentica di rilevare è che tale processo, oltre a spostare il centro della valorizzazione capitalistica dalla produzione materiale a quella immateriale e dello sfruttamento dal solo lavoro manuale anche a quello cognitivo, ha dato origine ad una nuova “accumulazione originaria”, che, come tutte le accumulazioni originarie, è caratterizzata da un elevato grado di concentrazione.

Nel mercato bancario, dal 1980 al 2005 si sono verificate circa 11.500 fusioni, una media di 440 all’anno, riducendo in tal modo il numero delle banche a meno di 7.500 (dati Federal Reserve). Al I° trimestre 2011, cinque società d’affari (J.P Morgan, Bank of America, Citybank, Goldman Sachs, Hsbc Usa) e cinque banche  (Deutsche Bank, Ubs, Credit Suisse, Citycorp-Merrill Linch, Bnp-Parisbas) hanno il controllo di oltre il 90% del totale dei titoli derivati (dati OCC, Office of Comptroller of the Currency).

Nel mercato azionario, le strategie di fusione e acquisizione hanno ridotto in modo consistente il numero delle società quotate. Ad oggi, le prime 10 società con maggiore capitalizzazione di borsa, pari allo 0,12% delle 7.800 società registrate, detengono il 41% del valore totale, il 47% dei ricavi e il 55% delle plusvalenze registrate.

Da questi dati, possiamo arguire che in realtà i mercati finanziari non sono qualcosa di imparziale e neutrale, ma sono espressione di una precisa gerarchia: lungi dall’essere concorrenziali, essi nascondono una piramide, che vede, al vertice, pochi operatori finanziari in grado di controllare oltre il 65% dei flussi finanziari globali e, alla base, una miriade di piccoli risparmiatori e operatori finanziari che svolgono una funzione passiva. Tale struttura di mercato consente che poche società (in particolare le dieci citate in precedenza) siano in grado di indirizzare e condizionare le dinamiche di mercato. Le società di rating (spesso colluse con le stesse società finanziarie), inoltre, ratificano, in modo strumentale, le decisioni oligarchiche che di volta in volta vengono prese.

Quando si leggono affermazioni del tipo “sono i mercati a chiederlo”, “è il giudizio dei mercati” e amenità del genere, dobbiamo renderci conti che tali cosiddetti mercati, presentati ideologicamente come entità metafisica, neutra e quindi oggettiva, non sono altro che espressione di un preciso potere.

La vera governance politica non sta più nelle istituzioni politiche, ma nella gerarchia finanziaria. Essere stato fedele servitore negli anni ’90, ai tempi della costruzione monetaria e monetarista dell’Europa, non ha consentito che le istituzioni europee potessero mantenere voce in capitolo. Il servilismo si è trasformato in servitù.

 

3. La spirale della speculazione si muove nell’ottica del massimo guadagno a brevissimo periodo. La politica economica necessità di un arco temporale più lungo. Tale iato è uno dei fattori strutturali che rendono l’instabilità endemica. Fintanto che la governance finanziaria comanda la governance politica e fintanto che le istituzioni politiche, in nome del “laissez-faire”, operano perché tale primato permanga, la situazione di crisi economica non può essere risolta.

L’attività speculativa si concentra in quei settori economici dove si registra un aumento dei rapporti di debito e credito a maggior intensità di rischio. Dopo la crisi dei subprime, un terreno fertile si è rivelato il debito sovrano dei paesi europei: un debito (che di sovrano in realtà ha veramente poco) che si è alimentato proprio per coprire le falle del mercato finanziario in seguito alla crisi del 2008.

Il meccanismo della speculazione è il seguente. Alcune grandi società finanziarie iniziano a vendere i titoli di Stato dei paesi che, a loro giudizio (d’accordo con le società di rating)  corrono il rischio di avere difficoltà di finanziamento. Ne consegue il deprezzamento del valore dei titoli, inducendo aspettative negative sul loro valore atteso nel futuro. I tassi d’interesse relativi all’emissione dei nuovi titoli inizia a crescere, ampliando il differenziale (spread) con l’interesse sui titoli di Stato considerati più sicuri (come quelli tedeschi). Tale tendenza si autoalimenta sino a creare un’emergenza (shock economy, direbbe Naomi Klein) che obbliga la Banca Centrale ad intervenire comprando i titoli di Stato in cambio di nuova liquidità monetaria e, allo stesso tempo, chiedendo e imponendo misure economiche drastiche volte fittiziamente a ridurre il deficit pubblico.

E’ il segnale che la speculazione ha vinto. Tutto ciò è abbastanza noto. Ciò che è meno noto è che, in contemporanea, il valore dei titoli derivati che assicurano i titoli di Stato (Credit Default Swaps, Cds) cresce enormemente, in modo proporzionale all’ampliarsi dello spread sui tassi d’interesse. Ciò consente ai possessori dei Cds di poter lucrare elevate plusvalenze. Fin qui la spiegazione teorica. Facciamo ora i nomi degli attori di tale attività speculativa, con riferimento al caso italiano. Ad inizio 2011, Deutsche Bank, una delle 5 banche che detengono il controllo del mercato dei Cds, inizia a vendere circa 7 miliardi di titoli di Stato italiani (Btp). A seguito di ciò, il valore dei Btp italiani inizia a ridursi e lo spread con gli analoghi titoli tedeschi inizia ad aumentare sino a superiore quota 300 per arrivare a metà novembre a oltre 500. I tassi di interessi sono passati dal 3% a oltre il 7%  nel giro di pochi mesi, con un aggravio nella spesa per interessi stimato in circa 8-9 miliardi di euro. Contemporaneamente, il valore dei Cds sul debito italiano sono aumentati di  quasi 5 volte, consentendo così enormi guadagni in termini di potenziali plusvalenze.

 

4. Le linee di politica economica che vengono imposte all’Italia e sono state imposte alla Grecia, al Portogallo, alla Spagna non hanno come obiettivo il risanamento dei conti pubblici, ma piuttosto lo scopo di sancire esplicitamente il primato del potere economico-finanziario su quello politico (dal controllo sociale politico-mediatico al controllo disciplinare della finanza). Il caso della Grecia è emblematico. Dopo quattro finanziare draconiane nel nome di un supposto risanamento, le previsioni sul Pil greco per il 2011 sono disastrose (- 5,3%), con il risultato che il rapporto deficit/pil, lungi dal ridursi probabilmente aumenterà. Il tentativo politico del governo Papandreu, anche per far fronte alle grandi manifestazioni di protesta, di indire un referendum popolare sulle politiche di austerità è durato lo spazio di un mattino.

L’obiettivo di ripristinare una possibile autonomia della politica rispetto ai diktat economici-finanziari è fallito miseramente. La Grecia ha varato un governo di unità nazionale sotto l’egida dell’ex-vice-governatore della Bce, supino agli interessi della gerarchia finanziaria. Democrazia non fa rima con finanza. Non è una novità. Trenta anni di liberismo hanno fatto credere (a chi voleva e aveva interesse a crederci) che la gerarchia di mercato (ideologicamente denominata “libero mercato”) potesse essere compatibile con l’esercizio democratico, seppur formale, dell’esercizio del voto. La crisi dei debiti sovrani ha stracciato questo miserevole velo. Il re è nudo, ma nessuno (soprattutto a sinistra) sembra accorgersene.

 

5. La situazione italiana, pur essendo diversa dal punto di vista economico, è invece assai simile dal punto di vista politico. L’Italia è diventato un obiettivo appetibile anche perché la sua credibilità politica è molto bassa. Il modo con cui il governo Berlusconi ha affrontato l’inizio della crisi ad agosto non ha fatto che incancrenire la situazione. Paradossalmente, il governo Berlusconi si è rivelato meno affidabile agli occhi dei mercati finanziari di quanto potesse esserlo un governo di centro-sinistra.  A fronte di tale situazione, un nuovo governo tecnico, di solidarietà nazionale, con a capo Mario Monti, si è insediato. E’ noto che Mario Monti, stimato economista, è, oltre che presidente europeo della Trilateral, anche International Advisor di Goldman Sachs, una delle società finanziarie che controllano, come Deutsche Bank, il mercato dei Cds. Voci dei mercati finanziari (riportate dal quotidiano Milano Finanza) confermano che proprio Goldman Sachs, così come aveva fatto nei primi mesi dell’anno Deutsche Bank, abbia  innescato l’ondata di vendite di Btp all’inizio di novembre, accelerando la crisi del governo Berlusconi. Berlusconi (come Papandreu) è stato così costretto a dimettersi non dalla politica italiana ma dai potentati economici finanziari.

 

6. E’ interessante notare che comincia a farsi sentire l’effetto Monti. Il Ceo di Deutsche Bank, Joseph Ackermann (nonché presidente dell’Iif, l’associazione delle grandi banche internazionali), il 20 novembre, in un convegno a Berlino organizzato dal quotidiano Suddeutsche Zeitung (quotidiano conservatore), ha dichiarato che la Deutsche Bank intende aumentare l’esposizione della banca tedesca sui titoli di stato italiani da un miliardo (ciò che era rimasto dopo la forte vendita dei Btp italiani di 7 miliardi nei primi mesi dell’anno) a 2,3 miliardi (Fonte Financial Times). Qualcuno potrebbe pensare che il cambio alla direzione del governo italiano abbia sortito i primi benevoli effetti. In realtà, si tratta semplicemente del segnale che la Deutsche Bank è passata all’incasso. Occorrerà verificare nelle prossime settimane se tale segnale verrà colto anche dalle altre grandi società finanziarie. Se ciò avvenisse, significherebbe che la pressione speculativa potrebbe non prendere più di mira l’Italia, ma potrebbe spostarsi altrove, magari in Francia. Ancora una volta, ciò conferma che la speculazione ha vinto e, al riguardo, c’è poco da stare allegri: è la semplice conferma che siamo comunque in ostaggio dei poteri finanziari. L’area dell’Euro è comunque ancora a rischio.

 

7. La svolta politica di Grecia e Italia, infatti, conferma l’ipotesi implicita che i mercati finanziari siano intoccabili. E’ sempre più imprescindibile la necessità di controbilanciare questo potere. Dal momento che le istituzioni politiche oggi dominanti non sono in grado di farlo, occorre che qualcuno se ne faccia carico. Ed è per questo che, all’interno dei movimenti sociali si sta ponendo un’altra alternativa, quella che viene denominata “diritto al default”.

Al riguardo, occorre sottolineare che le principali società finanziarie in realtà non vogliono il default degli Stati, anzi sarebbe per loro una grave minaccia, perché verrebbe meno la materia su cui innescare i processi speculativi (sarebbe come eliminare “la gallina dalle uova d’oro”). Pertanto vi sono (teoricamente) margini di manovra per ricontrattare la struttura del debito in chiave europea, con il fine di sottrarre al mercato dei capitali una quota dei titoli di Stato che oggi sono oggetto della pressione speculativa.

Tecnicamente una simile manovra è possibile, senza che ciò comporti effetti collaterali negativi per l’Italia, anche alla luce della nuova composizione del debito pubblico italiano. Fino agli  anni 90, il 50 % del debito era detenuto dalle famiglie sotto forma di risparmi (investiti in BOT ad esempio), e il 95 % di esso era comunque detenuto in Italia (famiglie e banche). A quei tempi, perseguire il default sarebbe stato assurdo e autolesionista. Ma oggi, nel 2011, il debito pubblico è detenuto per l’87% da banche e finanziarie e per oltre il 55% all’estero.

Secondo Morgan Stanley, una quota del 20% di questo 87% è costituita da fondi pensioni e fondi di investimento di proprietà delle famiglie italiane, seppur gestita e controllata dalle società finanziarie; di conseguenza, considerando il 13% dei titoli detenuti direttamente dalle famiglie, solo un terzo del debito pubblico italiano ha a che fare con l’attività di risparmio. Il resto è pura speculazione, nella maggior parte dei casi, internazionale. Proprio partendo da questi dati, è possibile attivare un default controllato, tramite una modifica, unilaterale e sancita per legge, delle condizioni di un contratto di debito e credito. A tal fine si può ipotizzare la possibilità di congelare una quota di questi titoli di Stato, sottraendoli all’azione speculativa delle grandi società finanziarie e sostituendoli con titoli di stato europei (tipo Eurobond), fuori dalla libera circolazione dei capitali (applicandovi un tasso di interesse ad esempio di 1,5 o 2 punti superiore a quello ufficiale), per poi scongelarli dopo un congruo numero di anni.  Una simile proposta ha sollevato parecchie obiezioni, delle quali due appaiono rilevanti. La prima afferma che in tal modo il valore dei titoli di stato italiani si deprezzerebbe con effetti negativi sui valori patrimoniali del sistema bancario-creditizio.

E’ vero, ma non ci si dovrebbe preoccupare più di tanto: in primo luogo, perché già la costituzione del Fondo Europeo Salva Stati (ESFS) prevede per i soli titoli greci un deprezzamento a carico delle banche detentrici tra il 30 e il 60%; in secondo luogo, perché in tal modo anche il sistema bancario (e non solo noi, che lo stiamo già facendo) dovrà pagare la crisi. La seconda obiezione è più rilevante: di fronte all’ipotesi di congelamento, potrebbero sorgere difficoltà nel collocamento dei nuovi titoli di debito, con il rischio di dover pagare un interesse maggiore. E’ la probabile reazione dei potentati finanziari. A ciò si può rispondere con l’obbligo di detenere un certo quantitativo di titoli di nuova emissione come quota delle riserve bancarie, in modo da garantire, ope legis, la loro riallocazione e sarebbe necessario che la Bce, recuperando il suo ruolo istituzionale di prestatore di ultima istanza, negato dal Trattato di Maastricht, se ne facesse carico in prima istanza, acquistando titoli di Stato nazionali sul mercato primario (in cambio di moneta di nuova creazione) e non solo sul mercato secondario (ovvero acquistando titoli di Stato già in circolazione) . Non siamo forse, come ci dicono, in condizioni di emergenza?

La problematicità della proposta non è tanto “tecnica”, quanto politica: si tratta, infatti, di introdurre delle restrizioni alla circolazione nel mercato dei capitali e creare una nuova agenzia europea che abbia come funzione la detenzione dei titoli “congelati”. E tale nuova agenzia europea non potrebbe né dovrebbe essere la BCE, ma piuttosto un agenzia “politica” europea, finalizzata alla costruzione di una politica fiscale comune europea che detronizzasse la sovranità fiscale nazionale in tema fiscale e di spesa pubblica. Veniamo qui, infatti, alla questione politica principale che ha favorito lo scatenarsi della speculazione finanziaria europea: la mancanza (voluta) di un’unica politica fiscale europea, con un unico budget ed un’unica legge finanziaria. Forse, in un contesto in cui diritto di signoraggio e legge di bilancio sono posizionati allo stesso livello di governance, l’attività speculativa avrebbe avuto meno gradi di libertà per agire. Ma questa è un’altra storia.

 Questa storia è stata letta 5228 volte

La Spoon River dei braccianti

Il libro
La Spoon River dei braccianti

Otto eroi, italiani e no, uomini e donne.
Morti nei campi per disegnare un futuro migliore. Per tutti.
Figure da cui possiamo imparare, non da compatire.

Condividi su facebook
Condividi su twitter
Condividi su email
Condividi su whatsapp

Laterza editore

Lo sfruttamento nel piatto

Le filiere agricole, lo sfruttamento schiavile e le vite di chi ci lavora


Nuova edizione economica a 11 €

Lo sfruttamento nel piatto

Ricominciano le presentazioni del libro! Resta aggiornato per conoscere le prossime date