Analisi. Le sperimentazioni sul bene comune

I “luoghi comuni”

Luigi Sturniolo
  I dieci anni che abbiamo alle spalle hanno visto il territorio aggredito dalle politiche delle grandi opere, dei grandi eventi, delle emergenze. Ad esso ha fatto ricorso un sistema d’impresa in crisi che si è nutrito di risorse pubbliche. Questo sistema ha replicato, nei fatti, il meccanismo di dilapidazione di risorse pubbliche e di democrazia derivato dalle privatizzazioni e dalle varie forme di combinazione pubblico-privato.
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Il luogo comune non è uno spazio vuoto, non è un’oasi, non è una riserva. Esso prende i connotati di chi lo vive, non conosce la separatezza del bene protetto. E’ a disposizione. Il luogo comune non si costituisce a partire dalla negazione dell’attività umana. Al contrario, in esso si addensano esperienze umane che stabiliscono rapporti di convivenza con le altre espressioni del vivente. Ma, appunto, non vive per sottrazione, vive per accumulo. E’ luogo di produzione, di attraversamento. Non si specchia in sé stesso e non ama il silenzio. Il luogo comune si dà in seguito a una conquista, è il frutto di una lotta. Viene dopo, non prima della disputa. In esso ha già avuto luogo una sperimentazione. Se è uno spazio sottratto alla mercificazione lo è non perché avrebbe potuto essere venduto in quanto tale, ma in quanto già usato come territorio della spoliazione e dell’appropriazione.

I dieci anni che abbiamo alle spalle hanno visto il territorio aggredito dalle politiche delle grandi opere, dei grandi eventi, delle emergenze. Ad esso ha fatto ricorso un sistema d’impresa in crisi che si è nutrito di risorse pubbliche. Perché questo potesse aver luogo è stato costruito un apparato normativo adeguato e organico centrato sulla verticalizzazione delle scelte e sulla cancellazione sistematica di ogni forma di partecipazione democratica, fosse anche quella, costituzionalmente garantita, degli organismi di rappresentanza. Questo sistema ha replicato, nei fatti, il meccanismo di dilapidazione di risorse pubbliche e di democrazia derivato dalle privatizzazioni e dalle varie forme di combinazione pubblico-privato.

Il territorio è diventato in questi dieci anni lo spazio delle lotte. Nel territorio si sono sviluppate le esperienze più significative e partecipate. Per quanto ancora strumento di grande importanza, lo sciopero ha perso parte della propria capacità d’incidere sulla realtà. Lo stesso legame d’interesse all’interno delle categorie e dei luoghi di lavoro si è rarefatto a causa della frantumazione delle categorie stesse. La moltiplicazione dei contratti ha reso sempre più difficile la costruzione di piattaforme comuni. Gli scioperi hanno visto una riduzione della partecipazione a causa del rapporto costi/benefici assolutamente deficitario e del significato più di posizionamento che davvero vertenziale di alcuni di questi. Così il territorio ha finito per diventare il campo di definizione di nuove alleanze. Soggetti anche molto diversi tra di loro sono riusciti a convivere e a condividere mobilitazioni ricompositive sui temi della difesa del territorio dalle devastazioni ambientali, sulla gestione delle risorse pubbliche, sulla nocività, sul reddito, sull’istruzione, sulla salute, sulla mobilità.

E’ sul territorio che si sono date le prime sperimentazioni relative al comune. L’acqua bene comune, gli spazi occupati bene comune, l’istruzione bene comune, la salute bene comune sono battaglie che hanno valenza universale, ma che si sostanziano a partire dai comitati locali, dalle aggregazioni locali. E’ sul terreno del locale che l’interesse comune viene percepito con maggiore facilità. Laddove il piano politico vive della perdita derivata dai tanti passaggi della mediazione, laddove il piano sindacale finisce per inseguire interessi particolari che, polverizzati, finiscono spesso per confliggere in una sorta di guerra di tutti contro tutti, lo spazio locale ha consentito l’incontro di molteplicità che hanno dato vita a lotte comuni. E sono i movimenti più avanzati sul piano del sindacale e della pratica dello sciopero che si costituiscono ormai su una dimensione territoriale. Le esperienze indignate, delle acampadas e dell’occupy in giro per il mondo sono esperienze territoriali. La manifestazione del 15 ottobre a Roma, che ha visto la partecipazione di centinaia di migliaia di persone, è stata animata in misura prevalente da esperienze, comitati, aggregazioni, movimenti territoriali, piuttosto che mossa dalla capacità delle organizzazioni nazionali. Nelle assemblee che l’hanno preceduta il richiamo all’unità che si dispone all’azione sul piano locale è stato il grido d’auto-aiuto più sentito.

La crisi ecologica (della quale il dissesto idrogeologico è fenomeno particolarmente gravido di pericoli e rappresentativo della rottura di tutti gli equilibri legati all’insediamento umano), la crisi della rappresentanza politica (evidente ormai a tutti i livelli nei quali si forma la decisione politica), la crisi economica (con il portato di crisi dei riformismi) consegnano ai territori il compito e la possibilità di ricostruire dal basso forme sostenibili dell’abitare, del decidere e del produrre. Il carattere strutturale delle crisi rende impossibile rintracciare delle soluzioni senza una fuoruscita dai dispositivi che le hanno causate. Da questo punto di vista, evidentemente, un governo guidato da personale della finanza e fondato sull’intimazione di una banca non può che rappresentare il tentativo di disporre la società ai flussi della finanziarizzazione, piuttosto che una difesa dai disastri di cui essa è portatrice.

Le pratiche del comune, le forme politiche originali di esodo dal privato e dallo statale, non possono che darsi sul territorio, laddove i corpi s’incontrano. Le pratiche del comune dovranno inondare il pubblico, guerreggiare affinchè esso venga riempito di partecipazione, autogestione, autorganizzazione, ma è solo al livello territoriale che sarà possibile, ad esempio, ricostruire, ripartendo dai saperi e dalle competenze locali, una dimensione urbanistica che consenta di sottrarsi al riprodursi sempre più frequente di eventi calamitosi. E’ solo a questo livello che sarà possibile costruire un welfare dal basso che consenta, attraverso forme di mutualismo e autogestione, di difendersi dalla penuria cui costringe la crisi economica. E’ a questo livello che si possono sperimentare forme di produzione auto-centrate, sostenibili e libere dalle forme dello sfruttamento.

I luoghi comuni non sono perimetrati. Riconoscono e recuperano saperi e vocazioni locali, ma non sono identitari. Sperimentano forme di autogoverno e non competono tra di loro. Sono territori che, dolcemente, si compenetrano. Dandoci ancora una possibilità.

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