Il modello è stato, ad un tempo, finanziario e normativo. L’escalation del costo della Tav e la militarizzazione della Val di Susa, la speculazione del progetto C.A.S.E. e il confinamento degli sfollati in campi a libertà condizionata, lo stillicidio delle spese per il Ponte sullo Stretto e la presa di possesso del territorio peloritano nel post-alluvione ne sono degli esempi. La difesa dei territori si è tradotta, quindi in uno strumento per opporre resistenza a questo modello. Esperienze come il No Tav, No Dal Molin, No Ponte, la lotta contro gli inceneritori e le discariche, la lotta degli aquilani hanno dato vita a laboratori territoriali capaci di mettere in discussione non solo il forte impatto sull’ambiente, ma anche la gestione delle risorse, il deficitario rapporto costi/benefici, la non democraticità delle scelte che le sottendono.
Ma territorio, così come anche comunità, è termine scivoloso, ambiguo. Difesa del territorio è difesa dell’ambiente e difesa del potere decisionale diffuso, ma difesa del territorio può essere anche perimetrazione, esclusione dell’altro. Pensiamo ai vari leghismi o a fenomeni come la cacciata dei migranti da Rosarno o Lampedusa.
Dovremo, allora, pensare la difesa dei territori come salvaguardia di un bene comune. Dovremo costruire la difesa dei territori non sulla base della difesa di interessi particolari, ma della costruzione di una decisione comune. Così anche la lotta contro gli espropri non sarà la difesa della proprietà privata, ma lo smascheramento di un processo di depredazione del territorio travestito da opera pubblica. Un processo nel quale la decisione è verticalizzata e alle popolazioni non resta che il ruolo di spettatori. A tale modello va contrapposta la costruzione di “spazi comuni”, luoghi sottratti alla mercificazione, non proprietari, restituiti alla libera fruizione.
L’esperienza dell’Ex Sea Flight può esserne un esempio. Rappresenta un simbolo di resistenza della comunità di Faro e di Messina, che da tre mesi autorganizzandosi ha liberato passo dopo passo, questo spazio del demanio concesso a un privato dall’immondizia, dall’incuria, dal silenzio opprimente delle istituzioni, facendolo rivivere con assemblee ed eventi artistici spontanei che il 21, il 22, il 23 ottobre sono culminati nella MANI/FESTA/AZIONE, grazie al collettivo QUASIVIVE e alla grande partecipazione cittadina. L’ex cantiere è un importante punto di connessione per la memoria collettiva: di fronte al mare di Scilla e Cariddi, in un luogo dismesso in cui potrebbe sorgere uno dei pilastri del ponte.
A livello nazionale il problema del ponte non è percepito come male comune, mentre continuano a piovere da Roma finanziamenti per un progetto che è stato bocciato anche dalla Comunità Europea. Siamo convinti che i soldi pubblici non possano essere dilapidati in grandi opere fantasma volte solo all’indebitamento speculativo, al guadagno di mafia e privati.
Ci sembrano evidenti i conflitti d’interessi, le decisioni assunte dai vertici alle spalle dei cittadini: il ministro alle infrastrutture Matteoli continua a definire il Ponte una priorità; insieme al governo c’è la regione Sicilia (quest’ultima è addirittura socia con la Stretto di Messina spa col 2,5%).
Il comune di Messina tenta di soffocare in ogni modo le proteste di cittadini e militanti che mettono in evidenza la prospettiva di una devastazione della città e di un radicale peggioramento della qualità della vita, causata dall’apertura e dalla permanenza dei cantieri per la costruzione del ponte. Peraltro, la chiusura della Stretto di Messina Spa rispetto alle richieste di compensazioni del Comune di Messina (circa 700 milioni di euro) mettono adesso in imbarazzo il sindaco: la riduzione al 2% delle opere compensative ha fatto saltare anche quella sorta di prostituzione del territorio basata sullo scambio devastazione/flussi di denaro.
Riteniamo che sia necessario soprattutto in questo momento rivitalizzare gli spazi usurpati alla collettività, fondamentali per la diffusione della cultura, della memoria comune, della sperimentazione di nuovi linguaggi, luoghi necessari alla formazione e alla crescita di una comunità.
D’altronde la crisi ci offre oggi delle opportunità. Nella crisi si aprono spazi per sfuggire alla dicotomia pubblico/privato. Se da un lato, infatti, è giusto difendere il welfare, se è giusto difendere scuola, sanità e trasporti pubblici, è anche vero che è possibile sperimentare forme nuove di osmosi, di autogestione, di autorganizzazione in ambiti fino ad oggi contesi tra stato e mercato.
Sentiamo la necessità di rallentare, riprenderci il tempo e lo spazio per collegarci, parlarci, contaminarci, per crescere insieme, per creare la nostra comune narrazione del presente, all’ Ex Sea Flight, come al Valle Occupato, al Teatro Marinoni, all’ex Cinema Palazzo. Riteniamo, come Ugo Mattei, che i luoghi, seppur belli, senza corpi che li riempono di vita siano luoghi morti. La bellezza non può attendere!
La finanziarizzazione delle infrastrutture
La Legge Obiettivo non funziona. La lunga sequela di grandi opere che prometteva non si è data e la cartina dell’Italia sulla quale Silvio Berlusconi aveva tracciato a Porta a Porta i suoi percorsi è rimasta l’emblema della politica degli annunci. Pur essendo stata pensata per consentire ai cartelli dei grandi contractor delle infrastrutture di gestire appalti miliardari, si è tradotta nell’apparato normativo che fa da sfondo ad un lungo e penoso stillicidio di risorse pubbliche che paga più progetti e consulenze che chilometri autostradali o ferroviari. Era basata sulla centralizzazione delle scelte e sulla partecipazione dello Stato nell’investimento, ma si è incagliata nell’acuirsi della crisi del debito pubblico che ha ridotto di molto i margini di manovra, nella difficoltà a “chiudere” il finanziamento privato e nella resistenza dei territori che si sono rifiutati di svolgere il ruolo di meri spettatori di una speculazione che si perpetrava a loro danno.
E’ in preparazione, quindi, una nuova legge che sostituisca la Legge Obiettivo, definisca il nuovo quadro d’insieme e rilanci il settore. Nei mesi scorsi è stato presentato il Rapporto “Le infrastrutture strategiche di trasporto” redatto dalle Fondazioni Astrid (Franco Bassanini), Italiadecide (Luciano Violante) e Res Pubblica (Eugenio Belloni) che ispirerà, molto probabilmente, la futura legge. Il Rapporto di Astrid, Italiadecide e Res Publica si dilunga molto sui meccanismi di finanziamento. L’opzione scelta è inequivocabile: Partnership pubblico-privato ovunque. Il finanziamento pubblico è in una fase di difficoltà causata dalla crisi del debito pubblico e va incontro ad un contenimento. Un ruolo decisivo verrà giocato dalla Cassa Depositi e Prestiti che potrà destinare le risorse della Raccolta Postale in favore di soggetti privati in relazione ad operazioni d’investimento d’ interesse pubblico (un esempio ne è il meccanismo di finanziamento della BreBeMi).
L’obiettivo è catturare i Fondi Pensione e i Fondi Comuni di Investimento, riuscire a coinvolgere, cioè, investitori istituzionali interessati al Lungo Termine. Un ulteriore strumento previsto è costituito dalla creazione di project bond, titoli di debito emessi da imprese impegnate nella realizzazione di progetti d’investimento d’interesse pubblico. Il sostegno dello Stato potrebbe essere dato da agevolazioni fiscali per i detentori dei bond.
L’obiettivo esplicito è trovare le risorse necessarie sul mercato finanziario e sostenere investimenti e titoli attraverso i rendimenti attesi delle infrastrutture stesse.
Si tratta di un meccanismo che contribuirà alla formazione di ulteriore debito e al pericolo di esplosione di nuove bolle speculative. Si intende ricorrere all’emissione di strumenti finanziari che finiranno in ultima istanza nei fondi pensione e di investimento dei cittadini. Questo e’ un meccanismo centrale: ancora una volta sono i nostri soldi che vanno a finanziare le opere peggiori dal punto di vista sociale e ambientale.