Un paradosso che vale 29 milioni di euro

Inquinatore in Basilicata, monitore ambientale sullo Stretto. Il doppio ruolo di Fenice EDF

Antonello Mangano
  L`inceneritore di Melfi gestito da Fenice ha inquinato per anni le acque della Basilicata e, molto probabilmente, ha causato malattie tra la popolazione. Eppure dal 2006 la stessa multinazionale francese è “monitore ambientale” per il Ponte sullo Stretto. A Melfi Fenice si autodenuncia per aver inquinato l`acqua, a Messina verifica la qualità dell`aria. E la Provincia ha imposto lo stop di 150 giorni all`impianto.
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Pubblicato su “Linkiesta”

MESSINA – Inquinatore della falda acquifera in Basilicata, “monitore ambientale” nello Stretto di Messina. E’ il doppio ruolo di Fenice, società controllata di EDF (Electricité de France, l’ENEL d’oltralpe). Lo scorso 12 ottobre sono stati arrestati l’ex direttore dell’Arpab (l’ente che avrebbe dovuto esercitare le funzioni di controllo) e il direttore del dipartimento provinciale. Le accuse sono disastro ambientale e omissione d’atti d’ufficio. Poche ore prima il ministro dell’Ambiente Prestigiacomo dichiarava: “Costringeremo i francesi a bonificare l’area”. Così trova conferma ufficiale la pericolosità dell’inceneritore di San Nicola di Melfi, provincia di Potenza, utilizzato per bruciare sia rifiuti industriali – tra cui quelli provenienti da impianti Fiat dislocati in varie regioni – che quelli urbani. Il 14 ottobre la Provincia di Potenza sospendeva l’autorizzazione all’impianto, costringendolo a uno stop di 150 giorni.

Il comitato “Diritto alla salute” di Lavello da tempo denuncia l’aumento dei tumori e chiede la chiusura della struttura, peraltro non giustificata da alcuna emergenza: siamo nella regione più “disabitata” d’Italia e la produzione di rifiuti è minima. La densità lucana è di 50 abitanti per chilometro quadrato, quella di Napoli 8mila. L’impianto gestito da Fenice avrebbe inquinato le acque fin dal 2002, immettendo metalli pesanti e solventi cancerogeni. La notte del 2 ottobre scorso è avvenuto un incendio che ha disperso nell’ambiente una nube di fumo tossico. Il rischio non riguarda solo gli abitanti del luogo. La zona si trova al confine con la Puglia e produce ortaggi, pomodori e uve da vino esportate in tutta Italia. Come si difende l’azienda? “La messa in sicurezza di emergenza del sito è stata operata immediatamente a valle dell’autodenuncia del 2009, come previsto dalla norma specifica, e il processo di bonifica è in corso nei termini di legge”.

La stampa locale ha riportato la testimonianza di Antonietta Asquino, che accusa macchie rosse sulla pelle, accompagnate da gonfiori e dolori. E’ stata per dieci anni addetta alle pulizie nell’inceneritore e ora ha presentato una lettera-querela alla Procura della Repubblica di Potenza. Ma le sue denunce iniziano molto prima: nel novembre del 2009 inviava una lettera al sindaco di Melfi nella quale, parlando della malattia, chiedeva i dati Arpab. Oggi l’ente è accusato di non aver reso pubblici i dati che in maniera evidente testimoniavano gli sforamenti delle quantità ammesse di mercurio, cromo, manganese e nichel (quest’ultimo anche di 360 volte).

Secondo alcuni medici i tumori nella zona sono aumentati in modo esponenziale. Solo ai microfoni di “Striscia la notizia”, tre giorni fa, il ministro dell`Ambiente annunciava una ispezione presso l’impianto. Nonostante sia il principale responsabile della situazione, Fenice EDF finora ne esce più che bene. Solo qualche sospensione per i dirigenti e nessuna imputazione da parte della Procura. E, soprattutto, nessuno ha chiesto di rescindere il surreale contratto che un soggetto pubblico (Stretto di Messina) ha firmato ormai cinque anni fa. E che dunque trasferisce denaro dalle tasche dei cittadini a quelle della multinazionale francese.

Il monitore

Il contratto lo definisce “monitore” (dal dizionario etimologico: colui che ammonisce, avvisa, ammaestra). E’ uno degli impegni di spesa più rilevanti dalla società “Stretto di Messina”, che ha annunciato per il 2018 l’apertura al traffico del Ponte sullo Stretto. Ma già nell’aprile 2006 veniva firmato l’accordo per il monitoraggio ambientale, territoriale e sociale per la fase ante operam, di costruzione e di esercizio (post operam) dell’attraversamento stabile e dei collegamenti stradali e ferroviari. Il valore della gara era di 37 milioni di euro, per effetto del ribasso scendeva a 29 milioni. Fenice è capofila di un consorzio formato anche da Agriconsulting, Eurisko NOPWorld, Theolab e dalla cooperativa calabrese Nautilus, unica ditta locale coinvolta nelle attività.

La questione ambientale è stata per lungo tempo il nodo cruciale della megaopera. Per dimostrare l’attenzione al tema, il monitoraggio è previsto nella cosiddetta “area vasta”, una zona molto più ampia rispetto a quella del cantiere. L’area marina sottoposta allo studio dei cetacei ha come epicentro lo Stretto ed è ampia ben 1600 km quadrati. Ma i settori da analizzare sono tantissimi: atmosfera, acque superficiali e sotterranee, sottosuolo, flora e fauna, rumore e vibrazioni, campi elettromagnetici, paesaggio; stato fisico dei luoghi e viabilità dei cantieri; ambiente sociale.

Lo stato di bianco

La fase ‘ante operam’ è già iniziata. Lo scopo è definire lo “stato di bianco”, ovvero la situazione preesistente all’avvio del cantiere. Sono stati installati rilevatori di traffico veicolare, campionatori, centraline e stazioni meteo sulle due sponde. Paradossalmente, una delle attività principali di Fenice è il monitoraggio della qualità dell’aria.

Gli ambientalisti contestano l’utilità complessiva del “monitore”. L’area di cantiere interferità con due SIC (Siti di Interesse Comunitario) sul versante siciliano, nove su quello calabrese e con le ZPS (Zone a Protezione Speciale) di tutto lo Stretto.

L’impatto ambientale è spesso confuso col danno “paesaggistico” di piloni e tiranti. Quello è solo un aspetto e nemmeno il più grave. “Sul territorio si avranno effetti negativi su tutto, dalla salute pubblica alla viabilità alla sicurezza idrogeologica”, spiega Anna Giordano, responsabile vertenze del WWF e vincitrice di riconoscimenti internazionali per il suo impegno ambientalista. “Potremmo avere un’area di impluvio, dove le acque piovane dovrebbero scorrere per poi raccogliersi nella fiumara sottostante, tappata con centinaia di migliaia di metri cubi di materiale di scavo. Una importante arteria diventerebbe a corsia unica, perché l’altra servirà ai TIR, ognuno dei quali porterà da 13 a 15 metri cubi di materiale”.

Il principale impatto sarà infatti quello del trasferimento dei materiali di scavo dai cantieri ai “siti di deposito e ripristino ambientale”. Dalle migliaia di tavole del progetto definitivo, oggi si può dedurre che sul versante siciliano le discariche saranno situate nelle zone di Curcuraci, Annunziata, torrente Pace, appunto zone di impluvio o comunque territori fragili come tutto quelli dello Stretto. Solo pochi giorni fa Messina ha celebrato il secondo anniversario della tragedia di Giampilieri, zona sud, quando morirono 37 persone in seguito a poche ore di pioggia.

I cantieri calabresi del Ponte, ormai sono dati ufficiali, produrranno poco meno di 4 milioni di metri cubi che saranno trasportati dai cantieri di Villa a Melicuccà, 30 chilometri più a nord. In Sicilia le varie discariche dovranno ospitare 6 milioni e 700 mila metri cubi di inerti. Circa 10 milioni quindi il totale prodotto dagli scavi del Ponte. Materiali da spostare, stoccare e ricoprire. Una questione che non sembra centrale nel piano del “monitore”, che comunque ha previsto l’osservazione di 160 punti a rischio frana. Poi gli studi si occuperanno di rumore subacqueo, macroinvertebrati bentonici, toporagni, comunità di chirotteri (pipistrelli) e micromammiferi. “Il ruolo di Fenice è chiaramente incompatibile, il contratto va revocato”, dice Luigi Sturniolo della Rete No Ponte. “Un inquinatore non può fare il monitoraggio ambientale. Ma noi chiediamo anche che il denaro vada ad un’opera realmente utile, la messa in sicurezza del territorio”.

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