ROMA – “Una cosa è la manifestazione, una cosa è lo sciopero”. Nel corso di un incontro che precede la manifestazione del 15, esprimono lo stesso concetto due persone apparentemente molto diverse. Yvan Sagnet, protagonista dello sciopero dei braccianti africani e Giorgio Cremaschi, segretario della FIOM. Un po’ per la loro esperienza, un po’ per contrapporsi all’ondata di antipolitica che diventa senso di impotenza, hanno suggerito lo sciopero come strumento del lavoratore per migliorare, anche in tempi rapidi, la propria condizione materiale.
Non è facile, direte voi, scioperare da precari. Infatti non è stato facile per i braccianti del Salento, facilmente ricattabili per il permesso di soggiorno, privi di una rete di sostegno familiare o amicale che potesse supportarli in quei terribili giorni di agosto, quando astensione dal lavoro significava non mangiare. Ma l’hanno fatto. E Sagnet doveva intervenire dal palco per raccontare lo straordinario percorso che parte da Rosarno (rivolta violenta non omicida con un obiettivo e serissime motivazioni) a arriva a Nardò. E non è stato facile per i collaboratori dell’Unità, sfruttati e non pagati, che hanno finalmente rotto l’incantesimo del “siamo tutti compagni” e la paura della sostituzione (quella del licenziamento non c’è, perché in genere non hanno uno straccio di contratto e sono inquadrati come “autonomi”).
Alla concretezza dello sciopero (un mezzo democratico per raggiungere un obiettivo concreto) si contrappone l’invettiva contro il nemico di turno; il “vaffanculo” che interrompe le discussioni, anzi: nemmeno le apre; i contenuti generici e gli slogan da copywriter. Le ultime grandi manifestazioni tenute a Roma (peraltro non hanno mai raggiunto il mezzo milione) erano intitolate “il nostro tempo è adesso”, “se non ora quando”, “uniti per il cambiamento globale”. Contenuti zero, anche il titolo di una canzone può essere politicamente più significativo.
Fotogalleria (Immagini di Raffaella Cosentino e Antonello Mangano)
Subito dopo la manifestazione sono stati riproposti i soliti luoghi comuni: gli infiltrati, una infima minoranza, violenza sì o no, rabbia frutto di esasperazione. La teoria dell’infiltrazione risponde principalmente a una funzione psicologica: il male non è tra noi perché sta dall’altra parte. Alla lunga può diventare un grosso problema. Che ci siano infiltrati, o che pezzi dello Stato possano desiderare il caos è pure possibile. Ma che il disastro del 15 ottobre sia il frutto di opera di infiltrazione è fuori dal mondo. Anche perché non è stato prodotto da una piccola minoranza, che sarebbe stata isolata e disarmata già nelle prime ore all’interno della manifestazione.
A reggere gli scontri a San Giovanni c’erano centinaia e centinaia di persone che si davano il cambio, che dimostravano “professionalità” nelle tecniche militari e che soprattutto erano molto distese. Dopo l’incendio della camionetta, in cui alcuni uomini potevano tranquillamente morire carbonizzati, ragazzini e giovani hanno lanciato un urlo da stadio, applaudito contenti, scattato foto ricordo (anche con smartphone) da esibire agli amici “conigli” che stavano a casa, intonato cori familiari ai frequentatori delle curve (“Roma caput mundi”, “brucerà, porca madonna se brucerà…” e simili). E hanno scritto “ACAB” (“All cops are bastads”) pure sulla camionetta bruciata, così come sui muri lungo tutto il corteo. Che vuol dire odio per chiunque porti una divisa, odio semplice, lo stesso odio che ha fatto coalizzare i tifosi di Roma e Lazio, fascisti e no, un`enorme marea nera. Contenuti politici zero, divisioni finite, anche un fascista scrive “ACAB” sul muro, e infatti a poca distanza c’erano i manifesti di un movimento studentesco di estrema destra: ribellismo generico, felpa nera e un fumogeno in mano.
Tra i tanti commenti abbiamo letto una frase importante e terrificante insieme: “Si è rotto un tabù, la necessità del ‘dover dire’ anche quando non c’è nulla da dire”. Magari è il contrario. Chi non ha nulla da dire stia zitto (e fermo) e non tolga ossigeno a chi lotta per andare avanti.
Infine il dibattito violenza sì – violenza no. Nello specifico è del tutto inutile, perché quello che abbiamo visto – specie in alcune fasi – è stato semplicemente il tentativo di uccidere. In maniera incosciente. Nelle auto incendiate in mezzo alla folla (le deflagrazioni hanno scandito tutto il corteo), nell’assalto in via Labicana (dove sono state incendiate con le molotov – senza sapere che ci fossero – le stanze dell’Associazione Nazionale Reduci Prigionia e Internamento della guerra di liberazione, rischiando di far morire dei ragazzi che erano all’interno); nell’incendio della camionetta dei carabinieri che conteneva cinque esseri umani.
La cosa più agghiacciante era la totale tranquillità, la freddezza dopo gli assalti che potevano essere omicidi. Marginali che non ne possono più? Una rabbia a lungo covata? Non l’abbiamo vista. Solo ragazzini e facce pulite. Precari e sfruttati sul lavoro? La stragrande maggioranza non aveva più di 23 anni e possibilmente ancora non sa cos`è il lavoro. Uno di loro ha tolto il passamontagna e alla gente che gli urlava contro ha risposto: “Ma cosa ho fatto? Mi dovevo difendere”. Una ragazza dall’aria insospettabile e molto tranquilla gli dice: “Dai, andiamo via, questi non capiscono”.