Un movimento patetico e pericolosissimo

La Lega è un caso di studio o un pericolo pubblico?

Angelo d"Orsi
  Il fascismo si è studiato dopo averlo sconfitto. Invece la Lega è vista dai suoi avversari come un interessante oggetto di analisi. Chi avrebbe detto che in breve volgere di tempo la Jugoslavia sarebbe diventata la “ex Jugoslavia”? A furia di scavare, il palazzo unitario può crollare. A furia di ripetere che la Padania esiste molti finiscono per crederci.
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Qualche giorno fa, il 22 settembre, l’Associazione Historia Magistra (www.historiamagistra.it), che pubblica anche l’omonima rivista (FrancoAngeli editore), ha organizzato, all’Università di Torino, una giornata di studio dal titolo Il “fenomeno Lega”. Nascita, ascesa (e declino?) di una forza politica nuova.

Che una “rivista di storia critica” (come recita il sottotitolo della testata), e un’associazione che predica e cerca di praticare il diritto alla storia, come diritto fondamentale, si occupi di un movimento politico assai lontano dalle proprie idealità, un movimento che della invenzione della tradizione, e di un uso a dir poco spregiudicato del messaggio politico, ha fatto la sua linea conduttrice può sembrare strano. Invece quel movimento (ora partito politico), offre, per la sostanza e spesso anche la forma dei messaggi che produce, un caso di studio molto stimolante, specie per chi, come il gruppo dell’Associazione e della rivista, si considera agli antipodi delle idee e delle pratiche discorsive e dell’azione concreta di Umberto Bossi.

Del resto che il fenomeno leghista sia degno di attenzione (e di preoccupazione) lo dimostra la mole di studi e ricerche che in diverse lingue si sono prodotti nel ventennio alle nostre spalle. il fenomeno Lega, la costruzione del mito padano, la ritualità simbolica, l’idea del partito territoriale, la capacità di penetrazione anche in fasce sociali o in ambiti geografici tradizionalmente serbatoi di altre forze politiche, raccogliendo lo scontento, le preoccupazioni e le ansie da futuro di un popolo di “spaesati” (come ha detto Aldo Bonomi, che alla Lega Nord dedica attenzione critica da molti anni), davanti alle turbe della globalizzazione. Fenomeno del moderno, ha ripetuto Bonomi, e in coro molti gli hanno fatto seguito, ma con espressioni (come hanno messo in luce Annamaria Rivera e Jordi Maiso), che rinviano a stilemi, comportamenti, riti, pagani, barbarici, spesso ancestrali, con conseguenze assai gravi, la prima delle quali è lo “sdoganamento” del razzismo, che, grazie alla martellante campagna dei signori “padani”, è diventato un lecito orientamento della cultura e della prassi politica.

Certo sarebbe stato facile fare uno stupidario delle dichiarazioni di certi leader, che ne hanno davvero sparate delle grosse; ed esistono già libri che le hanno raccolte, e in Rete è possibile trovarne davvero tante. Nel Seminario si è preferito adottare un atteggiamento più consono a un luogo di studio; pur senza rinunciare a un punto di vista, ferocemente avverso alle idee della Lega Nord, ai comportamenti dei suoi leader, si è dato spazio anche a visuali diverse, purché implicassero uno sforzo di avvicinamento alla conoscenza del “fenomeno Lega”. Certo, pur tentando si separare, per quanto possibile, il momento propriamente conoscitivo da quello valutativo, è difficile trattenere sentimenti di sdegno e di disprezzo per le “camicie verdi”, l’inventata “patria padana”, le ampolle d’acqua del dio Po, e soprattutto per l’agghiacciante slogan “Padroni a casa nostra” e le pratiche ripugnanti messe in essere contro i migranti, di cui peraltro il Nord Est in particolare, e il Settentrione industriale in generale, ha disperato bisogno; salvo trattare quegli individui come “non persone”, negando loro diritti, e conducendo una incessante campagna di odio.

Pur senza prescindere da un giudizio che è dato una volta per tutte, ed è di assoluta condanna, per chi fa professione di storico, poi, la Lega Nord rappresenta un caso particolarmente stimolante; interessa specialmente la decostruzione dei meccanismi della propaganda, particolarmente forte nei tempi di conflitto politico aspro (e specialmente quando il conflitto politico diventa scontro armato, interno o esterno che sia); se si crede nella storia come strumento di accertamento della verità, una pratica che si deve valere di strumenti filologici e analitici, il caso Lega Nord è parso, al di là dell’interesse politico, utile anche per un esercizio metodologico, di disvelamento.

Vale la pena di aggiungere, anche, che il movimento di Bossi interessa (e preoccupa) anche per le inquietanti analogie storiche a cui si presta. Si pensi al continuo giocare da parte del leader carismatico (?) sul doppio fronte: legalità e insurrezione, via democratica e via armata alla secessione del Nord: e proprio la secessione, ha dimostrato Francesco Tuccari, rappresenta l’idea forte, la linea conduttrice di fondo del movimento che Bossi ha fatto sorgere dalle idee di Gianfranco Miglio (poi ripudiato clamorosamente). Quel tipo di atteggiamento non riporta tra noi Benito Mussolini che nel ’22 giocava tra richiamo alla forza e quello al consenso? O lo stesso, che qualche anno prima, tra il 1914 e il 1915, quando si trattava di spingere il Paese, dissennatamente, nella Grande Guerra, poneva la rivoluzione in termini di ricatto politico alle istituzioni, a cominciare dalla monarchia: o ci date la guerra, o faremo la rivoluzione.

E Bossi? O ci date la Padania indipendente, con le buone, oppure faremo scendere dalla Val Seriana milioni di fucili… E che dire del ricorso alla camicia come strumento di identità del gruppo che diventa esercito? Abbiamo avuto le camicie azzurre dei nazionalisti all’inizio del sec. XX, le camicie nere nel dopoguerra, e per otlre un ventennio, e ora ci tocca sopportare le camicie verdi? E che dire della politica dell’ingiuria, della minaccia fisica, dell’urlo belluino? Nel partito di Bossi la violenza è un dato di fondo. Troppe volte abbiamo messo sul ridere i personaggi che poi ci siamo ritrovati ministri, inopinatamente, a cominciare da Roberto Maroni, per molti oggi il volto presentabile della Lega, divenuto ministro di polizia dopo esser stato arrestato per aver azzannato un poliziotto ad un polpaccio…

Il pericolo dell’assuefazione, davanti alle sparate leghiste, si combina in troppi osservatori, ma anche in tanti di noi, con quello della sottovalutazione di un pericolo reale. Chi avrebbe detto che in breve volgere di tempo la Jugoslavia sarebbe diventata la “ex Jugoslavia”? A furia di scavare, il palazzo unitario può crollare. A furia di ripetere che la Padania esiste, celebrando i suoi riti grotteschi, le sue feste pacchiane, eleggendo le “Miss”, o ora facendo il Giro ciclistico, molti finiscono per crederci. E la bestemmia di oggi rischia di diventare parola comune domani, legge dopodomani. Il partito “del territorio” a basi “etniche”, dopo aver tanto tuonato contro la Chiesa e il Papa, si è ridotto a più miti consigli, e sia sperando in un appoggio che per la verità è stato assai avaro da parte dalle gerarchie (ma i leghisti cercano di contrapporre una chiesa locale, dei parroci del Nord, alla chiesa di Roma, individuata come uno dei famigerati “poteri forti”) , sia per pura propaganda elettorale cercando di acchiappare voti contro “l’invasione islamica”, è giunto a proclamarsi difensore della civiltà cristiana: pur continuando in pratiche neopagane. Un insieme di temi su cui Paolo Bertezzolo ha fornito un contributo di analisi importante.

Ma la contraddizione pare essere il tratto di fondo di Bossi. Che non se ne preoccupa. I suoi rapporti con Berlusconi (due forme di populismo leaderistico imbevuto di antipolitica) sono emblematici nelle loro oscillazioni paurose. Finché, negli ultimi giorni, la Lega, il partito nato sull’onda di Mani Pulite, il partito che agitava il cappio a Montecitorio, e tuonava “Roma ladrona” (salvo tenere a nostre spese a Roma decine di deputati e senatori e funzionari…), si è trasformato nel puntello di un governo di malfattori. E la voce di Bossi, un tempo sonora e grezza, oggi stanca e biascicante, ripete il suo mantra sul federalismo conquistato. Altra sonora bugia: basti pensare al consenso leghista alla trovata berlusconiana dell’abolizione dell’ICI, la sola imposta locale, capace di assicurare la sopravvivenza minima ai Comuni.

Il discorso di Bossi a Venezia, forse il suo ultimo prima della uscita di scena, è stato patetico: ha ripetuto innumerevoli volte gli stessi “concetti” se così vogliamo chiamarli: tutti all’insegna della menzogna pura e semplice. “Abbiamo salvato le pensioni… contro la sinistra”, ne costituisce un esempio notevole. Ora, in una opinione diffusa, Bossi è sempre stato considerato un “genio politico”; o quanto meno un “animale politico”: opinione che potrei anche spingermi a sottoscrivere, se mi convincerete che il politico più geniale è quello che le spara più grosse. E che il cinismo assoluto e l’opportunismo bieco costituiscono un valore nell’azione politica. Se così è, allora Bossi, che annuncia ogni settimana “salverò Berlusconi”, e poi in effetti lo salva, con i voti dei suoi fedeli, salvo qualche maldipancia, che tuttavia mi pare stiano aumentando. Se per Berlusconi ci toccherà aspettare una congiura di palazzo, per Bossi la fine verrà da una rivolta di pretoriani?

Io preferirei, a dire il vero, agire subito. E procedere alla messa fuori legge di un partito politico il cui Statuto (approvato nel 2002), all’articolo 1, recita che fine della Lega Nord è la secessione della Padania. Se la magistratura non si sveglia, vogliamo provare ad agire? Perché non una bella raccolta di firme per una proposta di legge di iniziativa popolare che metta fuori legge Bossi, le camicie verdi, il sole delle Alpi, e quant’altro?

Dopo di che, la Lega Nord rimarrà un oggetto interessante di analisi per tesi di laurea e di dottorato. Ma lo si può benissimo studiare avendone chiuso le sedi, il giornale, la radio. Non si è fatto così anche col fascismo? Lo si studia dopo averlo sconfitto.

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