Tra pubblico e privato per un modello alternativo

La salute è un bene comune? Le scelte di Vendola e il caso Taranto

Luigi Sturniolo
  Uno degli aspetti più significativi e spinosi del processo di privatizzazione e aziendalizzazione riguarda le partnership tra pubblico e privato. Negli ultimi venti anni abbiamo subito un’offensiva straordinaria sul piano politico, culturale, economico in favore del privato contro il pubblico. Oggi ci si trova di fronte a una scelta cruciale. Il caso di Taranto può essere un utile esempio. Anche per Nichi Vendola.
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Negli ultimi venti anni abbiamo subito un’offensiva straordinaria sul piano politico, culturale, economico in favore del privato contro il pubblico. Il refrain di tale offensiva recitava: pubblico uguale corruzione e malcostume, privato uguale efficienza. Abbiamo, quindi, dovuto assistere ad uno straordinario percorso di privatizzazioni che è giunto fino a colonizzare quanto di più naturalmente comune ci fosse: l’acqua. Dopo tanti anni di ideologia aziendalista ci si è resi conto che dietro le politiche neoliberiste si nascondeva la necessità delle elite politiche ed economiche di auto-replicarsi attraverso la recinzione degli spazi comuni ed il furto economico ai danni della collettività, attraverso il drenaggio delle risorse pubbliche, la compressione dei salari, la riduzione dei diritti. In realtà, i processi di privatizzazione e aziendalizzazione, nella sanità come nell’istruzione, nei servizi come nei trasporti hanno peggiorato la qualità dell’offerta piuttosto che migliorarla. In più, chi aveva comandato su una società sostanzialmente statale ha continuato a comandare su una società privatizzata.

Uno degli aspetti più significativi e spinosi del processo di privatizzazione e aziendalizzazione riguarda le partnership tra pubblico e privato. Mantenendo funzione e proprietà pubblica dei servizi, esse hanno rappresentato una grande occasione di guadagno per gruppi economici e finanziari che, da soli, non riuscivano a stare sul mercato. In sostanza, è stato prodotto un modello in campi come sanità, smaltimento dei rifiuti, militare, grandi opere, emergenze che ancora oggi continua a proporsi nonostante gravi ormai evidentemente sulla crisi del debito pubblico (ed infatti sono in atto tentativi di riconversione del modello verso una dimensione più finanziarizzata).

 La vittoria sorprendente dei referendum contro la privatizzazione dell’acqua e contro il nucleare, la resistenza del popolo della Val Susa contro le speculazioni legate all’Alta Velocità, le mobilitazioni in difesa dell’istruzione pubblica, le vittorie di Pisapia e De Magistris sono espressione di un vento del cambiamento che spira nella direzione ostinata e contraria a quel modello. Questo, nonostante i partiti e i media della sinistra abbiano cercato, in questi mesi, di appropriarsi, in termini di rappresentanza, dei soggetti in movimento senza riconoscerne le argomentazioni e gli obbiettivi.

 L’irruzione del fenomeno Vendola sulla scena politico-istituzionale italiana è senz’altro il fatto politico più significativo degli ultimi anni. La produzione di un linguaggio, di una “narrazione”, eccentrica rispetto alle convenzioni semantiche alle quali siamo abituati ha di certo spiazzato e prodotto una ri-territorializzazione del dibattito politico cui non eravamo stati abituati. Non c’è alcun dubbio che le vittorie ripetute in Puglia, contro il centrodestra e il centrosinistra, abbiano rappresentato una esplicitazione della crisi del sistema della rappresentanza politica in Italia e aperto la strade ad imprese politiche (come appunto quelle di Pisapia e De Magistris) che sembravano impensabili.

Ma se, ai tempi, la barca dell’amore s’è spezzata, la zattera salentina ha bisogno di chiarimenti. Non tanto per rispondere a chi, quotidianamente, fa le pulci per dimostrare l’impossibilità di un’irruzione sul piano dei nessi amministrativi di esperienze altre o per mera concorrenza politica, quanto per mettere a verifica e certificare l’esistenza di un’esperienza davvero diversa  (sostanziata, cioè, dalla produzione di una pratica politica e amministrativa davvero alternativa). Il discorso politico che ruota intorno al progetto del San Raffaele del Mediterraneo di Taranto può essere occasione di chiarimento.

 La motivazione, più volte addotta da Vendola, per giustificare la necessità dell’intrapresa pubblico-privata del nosocomio pugliese è data dalle seguenti argomentazioni: “nel 2005 Taranto era una città agonizzante, con una classe dirigente impresentabile, con apparati burocratici spesso corrotti e incompetenti, con sistemi di potere diffusamente infiltrati dalla malavita. Il Comune, la Asl, lo Iacp (Istituto autonomo case popolari) erano autentici “buchi neri” e non solo dei rispettivi bilanci. Il più inquinato capoluogo del Sud era passato dalle gesta populiste di Giancarlo Cito alla finta modernità aziendale di Rossana Di Bello. 

Un disastro che porta Taranto al record del più importante dissesto finanziario dell’intera storia italiana. Sullo sfondo di queste miserie altre miserie, la povertà esplosiva di periferie in totale abbandono, l’ingorgo di ciminiere industriali mai monitorate e, per aria e nel mare, tonnellate di inquinanti di ogni tipo. Ecco Taranto. Una città appesa alle millanterie della peggiore destra italiana, ma anche una città malata, oppressa dai veleni e dalla paura, prigioniera della propria disperazione … I due ospedali tarantini, il Santissima Annunziata e il Moscati, sono due strutture vetuste ed obsolete, del tutto inadeguate ad attrarre una domanda di ricovero e cura che è in costante fuga verso il nord e verso il circuito privato. Ricordo a me stesso che la mobilità passiva (e cioè i ricoveri fuori provincia) della sola Asl di Taranto costa alla Puglia circa 120/130 milioni di euro all’anno: come se ogni anno la mia regione regalasse un nuovo ospedale alla Lombardia.

Messa così assomiglia tanto ad argomentazioni tipiche da “shock economy”. Un problema viene esaltato al punto da giustificare interventi straordinari. Chi si attarda in critiche non può che essere tacciato di assumere posizioni ideologiche e contrarie agli interessi della popolazione. Questo schema ha nascosto, negli ultimi anni, tante occasioni di decisioni a danno dei territori e delle risorse pubbliche. L’uscita dall’ordinario ha determinato, negli ultimi anni, una verticalizzazione delle decisioni e, quindi, una sempre minore partecipazione dei cittadini alle scelte che li riguardavano. L’emergenza è stata, poi, luogo d’elezione per la formazione di caste e corruzione.

 “L’ospedale è un’azienda” è un’altra argomentazione a supporto di una decisione in direzione del privato. Eppure un ospedale non è un’azienda. Un ospedale è un luogo nel quale vengono curate delle persone. Un ospedale è un’azienda in una società che ha reso mercantile ogni aspetto della vita. Dal fatto che un ospedale sia un’azienda segue che la cura sia una merce e che i malati siano degli acquirenti. C’è in questo uno scivolamento verso una narrazione contabile dei momenti più fragili della vita. Non c’è alcun dubbio che tale scivolamento sia una resa, un’ammissione d’impotenza, un giudizio di velleitarismo per tutti quei movimenti che hanno assunto la difesa dei beni comuni come un architrave politico.

 “Se io dessi 200 milioni ad una autorità pubblica a Taranto non avrei nessuna certezza di inaugurare un cantiere”, altro pronunciamento del governatore pugliese, risponde poi ad una sorta di superiorità ontologica del privato sul pubblico. Se, come dice Vendola la Asl tarantina va sotto di 120 milioni l’anno è pur vero che l’escalation dei debiti della Fondazione San Raffaele dal 2008 ad oggi non è da meno e le inchieste in atto forse spiegheranno se le perdite sono dovute a elementi corruttivi, di cattiva gestione o investimenti andati a male in uno dei tanti campi d’intervento dell’apparato finanziario-imprenditoriale donverzeano.

 Non è tanto in discussione la partnership con un soggetto economico in affari con la famiglia Berlusconi quanto la decisione di scegliere una gestione privata (e padronale-personale-carismatica come capita negli IRCCS) al salvataggio di ospedali pubblici da strappare alle consorterie politico-affaristiche attraverso il coinvolgimento dei soggetti direttamente interessati: lavoratori, assistiti, famiglie, ricercatori. La produzione della salute come bene comune, insomma, uno spazio pubblico intessuto di partecipazione. E’ questa è posta in gioco del futuro prossimo così come indicato dal vento del cambiamento che, seppur assomigli ancora solo ad un refolo, ha iniziato a spirare nelle mobilitazioni della stagione appena conclusa.

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