Reportage. Le voci dei reclusi: carcere senza diversivo, reclusione senza reato

CIE di Ponte Galeria, il cortocircuito dell`identificazione

Antonello Mangano
  Tutti i corpi armati presenti, trenta telecamere, un regolamento che nega ogni attività (anche leggere libri), la permanenza prolungata a un anno e mezzo. Un trattamento riservato a chi non ha documenti o non è stato identificato. Anche se non ha commesso alcun reato o ha già scontato la pena. Un "monumento alla violazione della Costituzione", secondo Furio Colombo. Insieme ad altri cinque deputati ha chiesto la chiusura dei CIE.
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PONTE GALERIA (Roma) – Una tripla serie di sbarre. Camionette che entrano ed escono (esercito, carabinieri, polizia e finanza). Una trentina di telecamere all’interno. Un regolamento paranoico che non permette di fare nulla. “Qui dentro ci dovrebbe stare Totò Riina”, commenta qualcuno all’ingresso. E invece ci sono una madre strappata alla figlia di due anni (stavano a Napoli), un marocchino da 15 anni in Italia che avrebbe perso la cittadinanza dopo la separazione della moglie, persone da identificare ma che misteriosamente hanno in tasca il passaporto e infine (la maggior parte, circa il 60%) quelli che non riescono a uscire dal corto-circuito carcere – Cie. Contrariamente ai luoghi comuni, ci sono persone da anni in Italia e non quelli che sbarcano a Lampedusa.

Uno spaccato molto chiaro è offerto dall’ispezione condotta da sei deputati dell’opposizione, avvenuta il 25 luglio. Colombo definisce Ponte Galeria un “monumento alla violazione della Costituzione”. Tutti chiedono che i CIE – così come sono ora – vengano chiusi. Che si cambi la legge vigente sull’immigrazione (Livia Turco, co-autrice della precedente legge, la definisce “Maroni-Berlusconi”).

Molti dei reclusi sono stati condannati, hanno finito di scontare la pena, ma non sono stati identificati. “Chi subisce una condanna dovrebbe essere abbondantemente identificato”, commenta uscendo Furio Colombo. E invece non è così, quasi  sempre a causa di problemi con i consolati. Quindi eccoli nel limbo circondato da alte punte di ferro. Ecco il tempo indefinito scandito dagli atti di autolesionismo, dai tentativi di fuga, dalle rivolte. Maroni ha crudelmente prolungato a 18 mesi, un anno e mezza di vita gettato via, questo periodo di vuoto. Carcere senza diversivi, reclusione senza reato.

“Il problema è che in carcere si sta meglio”, racconta all’uscita l’onorevole Sarubbi. “Non si può leggere perché si possono incendiare i libri, non si può giocare a biliardino perché la stecca è pericolosa. Tutto è un problema di sicurezza e il tempo non passa mai”.

Una ventina di reclusi sale sul tetto. Per ore, scandisce “libertà” sotto il sole. Improvvisano due striscioni, uno mettendo insieme dei pezzi di nastro adesivo presto portati via dal vento, un altro con un pennarello scolorito. Tutti dal contenuto inequivocabile: “Fascismo”. Guantanamo, scandiscono spesso. Non siamo animali. Chiediamo solo di uscire.

“Alcuni sono arrivati qui il 6 aprile, hanno preso il giorno sbagliato”, spiegano i deputati. Ventiquattrore prima il permesso di soggiorno per motivi umanitari, dopo un destino determinato da misteriose procedure degne di Kafka. “Siamo stati assaliti dalle carte”, raccontano gli onorevoli al termine della lunga ispezione (più di due ore). Così come sono, i CIE vanno chiusi.

 

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