La casalinga di Voghera vede in tv i “clandestini” che sbarcano a Lampedusa. Sono troppi, pensa. Già non c’è lavoro per noi italiani, commenta il marito. Dunque, va bene se vengono catturati e messi nel CIE. Va ancora meglio se saranno espulsi, caricati su un aereo e riportati a casa. Fuori dalle balle, ha sintetizzato un sofisticato pensatore. Magari qualche poliziotto (o finanziere) ha la mano pesante, può essere. Ma il meccanismo, nel complesso, è necessario. Tutto il resto è “buonismo”.
Questo ragionamento è completamente falso. Per prima cosa, a Lampedusa arriva una piccola percentuale del totale dei migranti. Il picco degli ultimi mesi si deve alle rivoluzioni e alle crisi nel Mediterraneo, in cui l’Italia era ed è parte in causa (rapporti economici, legami con Ben Alì e Gheddafi, intervento militare in Libia). La maggior parte dei migranti – asiatici ed est europei – arriva per altre vie. Nei “centri di identificazione” finiscono prevalentemente (a Ponte Galeria si parla del 60%) gli “intrappolati”, i migranti ingabbiati nel circuito senza uscita Cie-carcere. Sono condannati e dunque si presume che siano stati identificati. Invece no. In attesa di una risposta risolutiva del consolato rimangono circondati da grate e mura, sorvegliati da corpi armati di tutti i tipi, pestati al minimo accenno di “intemperanza” (è il delizioso eufemismo di un funzionario del ministero degli Interni).
Insomma, Lampedusa non c’entra niente. C’entrano invece le disfunzioni di un sistema capace di creare una burocrazia spaventosa, per nulla funzionale se non a un apparato che ci campa sopra. Tanta gente guadagna sul meccanismo che ‘ospita’ i migranti nell’attesa – sempre più lunga – di decidere della loro sorte. La casalinga si lamenta degli stranieri che vorrebbero essere accolti e mantenuti (un’idea sua, ma rafforzata da quelli che confondono la questione migranti con quella dell’accoglienza tout court). La famosa accoglienza, infatti, non indica che dobbiamo nutrirli perché siamo buoni, ma le attività di assistenza durante il disbrigo di pratiche burocratiche sempre più inefficienti.
La nostra casalinga ignora del tutto sprechi e disfunzioni, facili da nascondere all’ombra delle emergenze, quelle annunciate dal telegiornale, che poi diventano decreti del governo. E quindi appalti senza troppi controlli e procedure disinvolte. La nostra casalinga non sa sicuramente che un milione e mezzo di euro (dei suoi soldi) sono stati spesi per ‘tracciare l’identikit del rifugiato’ (risultato: è giovane e in prevalenza maschio). Intanto le procedure per la concessione o meno dell’asilo sono sempre più lente, e dunque più costose.
Alla fine, il CIE non è un sistema per ‘rimandarli a casa’, ma una fabbrica di clandestinità. I numeri parlano chiaro. Una spesa enorme per pochissimi voli di rientro. Un sistema che non funziona ma molto crudele, come dimostrano le infinite storie di pestaggi e crudeltà gratuite che dall’inchiesta di Fabrizio Gatti a quella di Palazzo San Gervasio hanno scosso l’opinione pubblica. Dai CIE esce un esercito di irregolari, condannati per sempre a una vita in clandestinità, braccia per i lavori paraschiavisti nelle campagne e nei cantieri. Carburante per un`economia stracciona destinata a essere superata dai paesi emergenti.
L’idea di chiudere i CIE non deriva necessariamente da considerazioni ideologiche o da simpatia a priori nei confronti da migranti. Ma dai fatti, che dovrebbero essere la base per ogni decisione politica. Che poi ci sia un generico elettore incattivito dalla crisi, alla ricerca di un capro espiatorio, capace di recepire solo ragionamenti trogloditici è un’idea che le ultime comunali di Milano dovrebbero avere spazzato via. Zingaropoli, dicevano. Attento alla moschea vicino casa tua. E hanno perso senza appello.
La protesta a Ponte Galeria. Fotografie di Raffaella Cosentino