Grazie all’ultimo rapporto IRES-Cgil, i media hanno nuovamente parlato – per un paio di giorni – della rivolta di Rosarno. Ancora una volta, sia studi approfonditi che semplificazioni giornalistiche finiscono per rappresentare i fatti del gennaio 2010 come il prodotto meccanico di condizioni oggettive, e non come la libera scelta di individui che avevano la possibilità di “integrarsi” col contesto, quindi accettarne la violenza endemica, oppure di ribellarsi immediatamente e platealmente.
Oggi che in Calabria si torna a sparare – quattro omicidi in poche ore, da Rosarno a Lamezia – quella scelta appare ancora più coraggiosa, se contrapposta all’atteggiamento fatalista dei calabresi e della stessa opinione pubblica nazionale, che ormai li considera come fatti naturali o di scarso interesse.
Non dimentichiamo che gli stessi migranti avevano dato vita alla prima rivolta di Rosarno (dicembre 2009), a quella di Castel Volturno (settembre 2009) contro il terrorismo camorrista che aveva causato la strage e allo sciopero delle rotonde (ottobre 2010), sempre in Campania, uno dei momenti più importanti della lotta sindacale degli ultimi anni, considerando anche le condizioni estreme in cui è stato condotto.
Purtroppo questa potenzialità politica è stata duramente limitata dall`approccio repressivo-legalitario del Ministero dell`Interno di Maroni, dal modello dell`accoglienza recintata (“vietato fare politica”, c’era scritto al cancello d`ingresso del Centro d’accoglienza messo su a Rosarno per la stagione invernale 2010-2011) e infine dalla negazione della soggettività politica del migrante, che per tutti rimane – in ultima analisi – un essere privo di volontà.
Per alcuni deve essere cacciato via, per altri va aiutato. Per tutti non ha niente da dirci o da insegnare. Pensare che possano esistere “altre Rosarno” dove ci sono condizioni generiche di degrado o sfruttamento oppure ancora un’alta concentrazione di stranieri è fuorviante. Le lotte dei lavoratori migranti sono le stesse degli italiani. Si rischia invece di allarmare la popolazione presentando lo straniero come una miccia pronta a esplodere e non come un soggetto che rivendica diritti essenziali. Come quello – per esempio – che non gli si spari addosso.