Pubblicato su “Linkiesta“
LAMEZIA TERME (Catanzaro) – Bombe ad alto potenziale e spari assassini nei pressi del mercato. Siamo in Italia, non in Iraq. Ma tra la notte del 7 luglio e il mattino successivo, Lamezia ha scoperto di essere in guerra. Intorno alla mezzanotte esplode una bomba di fronte alla pasticceria Giordano, una delle più note della città. Il boato sveglia un quartiere del centro e viene avvertito in più parti del centro urbano. Cinque auto danneggiate, l’onda d’urto ha frantumato parabrezza e distrutto carrozzerie. A pezzi anche i vetri di una scuola vicina, mentre si diffondeva il panico tra gli inquilini del palazzo. L’esplosione è solo l’ultimo di una serie di atti intimidatori contro gli esercizi commerciali della zona, almeno venti nell’ultimo mese.
Il mattino dopo, sempre in pieno centro, un omicidio tra la folla annuncia una faida tra i clan. I killer esplodono quindici colpi di pistola contro Francesco Torcasio, venti anni. Il giovane è fermo all’interno della sua Peugeot. Sono appena le nove, molti commercianti stanno alzando le saracinesche. A poca distanza si svolge il mercatino settimanale. Gli spari terrorizzano la gente, che si dilegua in pochi minuti. Il padre della vittima era stato ucciso un mese fa mentre assisteva a bordo campo a una partita di calcetto. Gli spettatori uscirono rapidamente subito dopo il delitto.
Cosa sta succedendo? Gli investigatori ipotizzano una ripresa dello scontro tra i Cerra-Torcasio e gli Iannazzo-Giampà. Ma non basta pensare che “si ammazzano tra loro” per sentirsi al sicuro. Angela Napoli, componente della Commissione parlamentare antimafia, osserva che “i contendenti, pur di espletare le loro vendette, non hanno orari, scelte dei luoghi, né tantomeno si preoccupano di usare le armi tra la gente”.
La faida va avanti da nove anni e ha lasciato sul terreno una quarantina di morti. Gianni Speranza è stato eletto sei anni fa dopo due scioglimenti per mafia. “Siamo tutti preoccupati che riprenda e si sviluppi una nuova guerra di mafia, terribile, sanguinaria e senza esclusione di colpi”, commenta il primo cittadino. “Faccio un appello: la vendetta non serve, alimenta solo odio e sangue ed espone a rischi anche cittadini inconsapevoli che passano per caso sul posto dei delitti e degli attentati”.
Non è stata mai facile la vita di Speranza a Lamezia. Ecco come fu accolto: “Sono stato eletto di lunedì sera, mercoledì vengono i vigili urbani e mi dicono: ‘Sindaco, dovete scappare con noi perché è stata incendiata la porta dell’aula consiliare’”. Era il 2005. In campagna elettorale aveva rifiutato i voti delle ‘ndrine e invitato gli altri candidati a fare altrettanto.
Dove siamo?
Lamezia non è un paese periferico dove la criminalità domina incontrastata in mezzo a una popolazione complice e impaurita. E’ invece un territorio relativamente vivace dal punto di vista sociale ed economico, che ospita il primo aeroporto della regione. Oggi appare consegnata alla violenza criminale più brutale. In realtà, basta una prima ricognizione per capire che siamo in una terra ricchissima di contrasti e contraddizioni, dove mafia e antimafia si stanno scontrando. Ignorata dai media, snobbata dalla politica, la partita che si gioca a Lamezia è molto più importante di quanto si pensi.
Proprio qualche giorno fa si è concluso “Trame”, il primo festival dedicato ai libri dell’antimafia. Ospiti attivisti, magistrati e scrittori, tra cui don Luigi Ciotti, Nicola Gratteri e Lirio Abbate. L’iniziativa è di Tano Grasso, assessore alla Cultura oltre che presidente onorario della federazione antiracket.
Claudio Metallo, Nicola Grignani e Miko Meloni sono tre giovani videomaker. Il loro ultimo documentario si intitola Un pagamu (“Non paghiamo”) e ha vinto il festival di Ghedi, in provincia di Brescia. Racconta i commercianti di Lamezia che hanno deciso di restare e dire no al racket. Tra loro la famiglia Godino, a cui fu incendiato il deposito di gomme il 26 ottobre del 2006. Le fiamme si propagarono per tutti i quattro piani del palazzo, distruggendo tutto. La colonna di fumo arrivò fino al cielo, ad ammonire tutti i lametini. Già il giorno dopo, i Godino ricominciavano a lavorare con i pochi pneumatici scampati al fuoco. L’attività ha riaperto anche grazie all’aiuto dei cittadini e dell’amministrazione comunale. “Non c’è mai balenato per la testa di andarcene”, dice Daniele Godino. “Perché darla vinta a questa gente? Che senso ha? Scappi tu, ma il fenomeno rimane”.
Le cifre richieste possono arrivare fino a 1200 euro al mese, una grossa somma di denaro con cui si potrebbe assumere un nuovo dipendente o essere costretti a licenziarne un altro. Spesso l’estorsione è solo il pretesto per entrare in possesso di un buon negozio, spiega il documentario. I meccanismi possono essere tanti: l’assunzione di un parente degli ‘ndranghetisti o l’ingresso come socio di uno di essi. Quasi sempre si finisce col perdere la propria attività.
Cecè è un ristoratore – militante che ha vissuto dieci anni in Emilia e poi ha deciso di ritornare. “Volevo fare qualcosa di mio e a Bologna c’erano già tante cose belle…”. Francesco Palmieri, un altro commerciante lametino, osserva: “Se pago, divento tuo schiavo. Tu entri in casa mia e fai quello che vuoi”. Armando Caputo è il presidente dell’associazione antiracket (ALA), nata nel 2003: “L’imprenditore che fa affari con loro è un nostro nemico”.
Non sono pochi
Rocco Mangiardi è stato il primo commerciante lametino a indicare i suoi aguzzini in un’aula di Tribunale: “Nel 2006 alcuni individui entrano nel mio negozio di autoricambi e mi chiedono di non dare più credito a nessuno. Pagando una tangente di 1200 euro al mese, avrei risolto tutti i miei problemi. Mi dissero di dare questo pensierino a Pasquale Giampà. Questa zona era sotto la sua tutela”. Qualche tempo dopo, quattro estorsori sono arrestati grazie ad alcune intercettazioni. E arriva il giorno che cambia per sempre la sua vita e quella della sua famiglia. Giampà chiede il rito abbreviato, per cui il confronto in aula non è più indispensabile. Mangiardi vive la richiesta come una sfida: “Credo che lui abbia fatto questo perché credeva che non avessi il coraggio di andare a testimoniare”. Si presenta lo stesso in aula e indica il boss come l’uomo che pretendeva il pizzo “perché pagano tutti, dalla A alla Z”.
“In realtà, girando questo documentario, mi sono reso conto che non sono pochi i commercianti che hanno deciso di non pagare”, mi dice Claudio Metallo. “E’ vero che non c’è stata un’ondata di gente che ha denunciato gli estorsori e i loro complici ma è pur vero che si è passati da una situazione in cui i primi membri dell’antiracket si riunivano quasi in segreto alla possibilità di lavorare alla luce del sole, invertendo una situazione che costringeva i ‘buoni’ alla semiclandestinità, mentre i ‘cattivi’ potevano tranquillamente ritrovarsi in un bar o in un ristorante”.
In pochi hanno capito che mafia e sottosviluppo sono strettamente correlati. “Dove c’è il controllo della criminalità organizzata, alcuni imprenditori decidono di non far crescere la propria azienda”, conclude Metallo. “Pensano che se sono piccoli e restano piccoli non avranno problemi e nessuno verrà a chiedere loro di sborsare una cifra mensile per non subire violenze”.