Pubblicato su “Linkiesta“
BARCELLONA POZZO DI GOTTO (Messina) – «Sono entrata in bagno per lavarmi le mani e l’odore era insopportabile. C’era una puzza pazzesca. Non succedeva da almeno tre anni. Allora il soggiorno divenne come una camera a gas e sul balcone trovammo una sostanza liquida viscosa. Mi veniva da piangere. Ci sentivamo spossati, avevamo sempre sonno». Angela Manca vive col marito a Barcellona Pozzo di Gotto, in provincia di Messina. È un paese di mafia, ma lo ha scoperto nel più tragico dei modi quando le dissero che suo figlio Attilio era stato trovato senza vita in una pozza di sangue.
Da sette anni la famiglia chiede semplicemente la verità. Decine di incontri pubblici, un libro inchiesta – oggetto di ripetute diffide – scritto da un giornalista spagnolo, la partecipazione alla trasmissione tv “Chi l’ha visto?”. E ogni volta la stessa richiesta ai magistrati: non archiviate l’inchiesta senza una risposta definitiva sulla morte di nostro figlio. Infine, qualche settimana fa, la loro abitazione fu invasa da strane sostanze irritanti. Chi sta tormentando i Manca? Vicini dispettosi? Gente che vuole nascondere la verità?
Ci affacciamo dal balcone che dà su una via principale del paese. Potremmo essere a Cinisi. Gli assassini di Attilio potrebbero essere a “cento passi”, o anche a meno. Nei capanelli delle piazzette, sotto gli alberi che riparano dalla calura estiva e dal sole siciliano, si sussurra che i Manca siano impazziti dal dolore. Al punto da inventarsi le intimidazioni chimiche.
Entriamo nel piccolo bagno. Un odore – come di vernice – persiste ancora. «In passato era molto peggio», ci spiega Angela. «Ci bloccava la respirazione. Perdevamo le forze, non mi sono mai sentita così». Ma cosa viene spruzzato a casa dei Manca? «Abbiamo chiamato i carabinieri: “Avete ragione, c’è una puzza insopportabile”, ci hanno detto. Hanno chiamato i vigili del fuoco di Milazzo, anche loro hanno constatato la stessa cosa. Non avendo gli strumenti adatti, hanno fatto venire i colleghi da Messina. Avevano il rilevatore ma non l’agente chimico per capire di quale sostanza si trattava. E così ancora non sappiamo nulla. I vigili sono tornati con l’agente ma ormai la sostanza era evaporata».
«Fatti simili si erano ripetuti tre anni fa», dice Gino Manca, padre di Attilio. «Questa stanza, il soggiorno, diventava come un camera a gas, si vedeva una foschia, tanto che una sera il commissario di polizia ci disse: “Allontanatevi da questa casa”. Siamo rimasti a Spinesante, nella casa al mare, fino al 22 novembre. In attesa di un provvedimento da parte di qualcuno. C’era una sostanza liquida viscosa sul davanzale della finestra del bagno e sul balcone della camera da letto».
Anche in quel caso non avete saputo cos’era? «Sono venuti gli uomini del Ris, il reparto investigazioni scientifiche. Hanno preso i tamponi, fatto le analisi. Ma non abbiamo saputo niente. Anche il capitano dei carabinieri si è reso conto della situazione di disagio. Siamo finiti diverse volte al pronto soccorso. Abbiamo i referti: gola irritata da sostanze tossiche».
Un anno fa il Gip si è riservato di decidere sulla terza richiesta di archiviazione. I familiari chiedono invece un supplemento di indagini. Il 12 febbraio 2004 l’urologo venne trovato morto nel suo appartamento di Viterbo. Overdose di eroina, fu detto subito. Suicidio. Un’ipotesi rapidamente rimbalzata dal Tribunale della città laziale alle chiacchiere di paese di Barcellona. Ma perché un urologo di trentacinque anni, specializzato a Parigi, brillantemente inserito nella sanità romana, uno dei maggiori esperti nel suo campo in Italia, avrebbe dovuto suicidarsi?
«Imponenti lacune investigative», le ha definite il legale Fabio Repici. Si riferisce alle domande rimaste senza risposta sulle ultime ore di Attilio Manca. Per prima cosa, non è stata fatta una verifica delle impronte presenti sulle siringhe usate per iniettare l’eroina. Ha usato i guanti? Ci sono le sue tracce o quelle di altre persone? La risposta può trasformare il suicidio in omicidio. Seconda domanda: come ha fatto Attilio a deviarsi il setto nasale e a farsi venire una violenta emorragia dal naso e dalla bocca cadendo su un piumone? L’indagine non ci illumina sulla questione. Terzo: non è mai stato chiarito dove si trovava il medico siciliano l’11 febbraio alle ore 9.30, quando ha fatto l’ultima telefonata ai genitori, anche questa misteriosamente sparita dai tabulati.
Ci sono almeno altre due domande senza risposta. Tutte legate a Bernardo Provenzano, a un misterioso intervento a Marsiglia, al ruolo della criminalità barcellonese, storicamente specializzata nell’assistenza logistica dei grandi latitanti di mafia. Un urologo ha visitato Provenzano nel suo rifugio. Ne ha parlato il mafioso Pastoia, anche lui morto suicida in carcere. Nessuno sa cosa faceva Attilio a Marsiglia nello stesso periodo dell’intervento alla prostata per via laparoscopica di cui aveva bisogno il boss di Corleone. Eppure sarebbe stato facile esaminare i tabulati. In quel periodo Attilio fece due telefonate ai genitori, dicendo che doveva assistere ad un intervento. Chi era il paziente?
Angela e Gino Manca sono due insegnanti in pensione. Un figlio avvocato, l’altro brillante medico nella capitale. Vita tranquilla da borghesia di provincia. Almeno fino a quando la mafia ha sconvolto la loro esistenza, dimostrando che nessuno è al sicuro come vorrebbero i luoghi comuni sull’argomento (“si ammazzano tra di loro”, “se ti fai i fatti tuoi non ti succede niente”). I Manca, insieme al figlio Gianluca, attendono febbrilmente notizie da Viterbo. La stanza di Attilio è rimasta come era prima. Nonostante la situazione da incubo, con i potenziali assassini che spruzzano sostanze tossiche, tutti sono sorprendentemente pacati. Dice Angela: «Questa è la casa dove sono cresciuti i nostri figli, dove abbiamo trascorso gli anni sereni della nostra vita, dove la mafia ci ha consegnato Attilio in una bara. Non ce ne andremo».