Le vittorie di Pisapia e De Magistris sono figlie della volontà di cambiamento. Leggerle come capacità del centrosinistra di rappresentare un’alternativa reale al berlusconismo sarebbe un errore. Semmai hanno giocato (in particolare nelle grandi città) le personalità dei candidati, la loro eccentricità rispetto all’establishment del centrosinistra. Hanno più a che fare con la vittoria di Vendola in Puglia che con quelle di Prodi. Sono vittorie figlie di un’adozione, quella delle forme politiche e organizzative eccedenti i partiti.
Sull’onda dei ballottaggi, è probabile che anche i referendum riescano a superare la soglia del quorum. Sarebbe un risultato straordinario. Segno tangibile della prevalenza dei movimenti sulle forme della politica tradizionali. Non che anche partiti non ci siano stati nel percorso che ha portato prima alla raccolta di un milione e quattrocento mila firme e ora al voto, ma si tratta pur sempre di un’incidenza relativa. Non c’è dubbio, infatti, che in questa occasione i movimenti, le associazioni, i comitati hanno innescato un meccanismo di trascinamento che, soprattutto negli ultimi giorni, ha travolto i partiti (anche di governo) e i media.
Amministrative e referendum sono, quindi, manifestazioni evidenti di una domanda di cambiamento esplicita. Se è vero che in alcune occasioni questa domanda ha trovato delle risposte all’interno stesso della compagine in moto (soprattutto nel caso di Napoli), è pure vero che le dinamiche istituzionali si esplicitano ancora secondo un’offerta politica data dalle tradizionali espressioni della rappresentanza politica: il centrodestra e il centrosinistra. Che le altre (il polo di centro e la sinistra radicale) non sembrano, al momento, in grado di giocare un ruolo autonomo. Saranno, cioè, costrette a offrire la propria dotazione di suffragi (che potrà anche risultare decisiva) in virtù di uno scambio politico.
C’è, però, uno iato profondo tra domanda di cambiamento e offerta politica. Tralasciando il campo del centrodestra, laddove dal corpo sociale provengono richieste dalla chiara impronta razzista e securitaria (tanto estreme da non poter essere ricevute dalla rappresentanza politica), è nel centrosinistra che si evidenzia la maggiore distanza. Se è vero, cioè, che la lunga marcia referendaria e l’espressione di voto nelle amministrative hanno la stessa origine è vero anche che il tema posto dai referendum (il bene comune e la lotta alla privatizzazione) non trova riscontro significativo nel centrosinistra.
E’ singolare, ad esempio, che alcuni argomenti sostenuti dai contrari al referendum per l’acqua pubblica siano replicati da attivisti per il Sì laddove servano a difendere scelte di collaborazione con i privati sul terreno dei beni comuni in amministrazioni a guida di centrosinistra. In particolare, viene affermato che il privato sia portatore di maggiori competenze, risorse economiche, migliore capacità gestionale. E’ una debacle, un alzare bandiera bianca, l’affermazione che quando si governa (e non si sta solo a far casino) senso di responsabilità vuole che si abbandonino i sogni e si faccia voto di realismo. E’ l’affermazione della distanza tra pensiero e vita. E’ l’ammissione che le nostre idee non sono efficaci e vivono solo come auspicio, un po’ idealista, senza alcun legame con gli interessi materiali delle persone.
Questo pensiero non tiene conto che negli ultimi anni l’ambito delle imprese pubblico-private si è affermato come risposta alla crisi e, senza mai dare grandi manifestazioni di efficienza, si è tradotto in un mero trasferimento di risorse pubbliche nelle tasche di multinazionali e gruppi finanziari che vivono dell’appalto pubblico. Senza contare che all’ombra di operazioni di questo tipo si sia spesso organizzata una vera e propria cricca/shock economy. Abbiamo, cioè, assistito al formarsi di un modello (sostanziato dalla costruzione di un apparato normativo di favore: privatizzazione del pubblico impiego, legge obbiettivo, riforma della Protezione civile …) che ha e sta succhiando quello che resta delle risorse pubbliche a disposizione, distruggendo di fatto il welfare. Perché questa è la posta in gioco ed è di questo che andrebbero investite le esperienze amministrative e politiche che si candidano a rappresentare il vento del cambiamento: welfare o partnership pubblico-privato, comune o enclosure.
Al tempo dell’esplosione dei debiti sovrani, laddove, stante così le cose, l’Italia si appresta a varare finanziarie da 40 miliardi di euro (paragonabili al salasso subito dai cittadini con i governi Amato, Ciampi, Dini), questa alternativa è drammaticamente all’ordine del giorno. La cessione del welfare alla gestione combinata pubblico-privato sancirà il prosciugamento dei beni comuni e l’azzeramento dei diritti. Il tutto per opere che non necessariamente giungono alla fine, ma che replicandosi sui mercati finanziari, hanno come unico fine lo step successivo che consenta di poter dichiarare attivo il percorso. In realtà, i privati non hanno nulla da offrire. Spesso sono baracconi pieni di debiti, il più delle volte gestioni di fondi che saltano da un’occasione all’altra alla ricerca di un rendimento accettabile. Non c’è alcuna intelligenza che le guida se non l’istinto barbaro della resa finanziaria.