TORINO – Secondo un luogo comune molto diffuso, i movimenti territoriali dicono “no a tutto”, sono contro il progresso, in particolare si oppongono a ponti e treni, essendo sostanzialmente conservatori e localistici. Secondo una serie di fatti e dati, in particolare il movimento No Ponte e quello No Tav oggi si battono per la democrazia, concretamente per destinare i soldi pubblici (quelli con cui si fanno le grandi opere, la balla del finanziamento privato ormai non regge più) a cose utili per tutti anziché ai profitti di pochi.
Sabato 14 maggio a Messina e sette giorni dopo in Piemonte i due movimenti hanno portato in piazza migliaia di persone, senza troppa attenzione di media e politici. Le opere progettate vanno avanti, con una lentezza finalizzata allo spreco di ulteriori risorse, ma sembra che i movimenti siano gli unici a rendersene conto. In Piemonte, l’ultima trovata è il “completamento per fasi”, in modo da lasciare per ultima la Val Susa e completare il tracciato nel 2023. Almeno in teoria. “Una questione di ordine pubblico e di mancanza di soldi”, secondo i politici locali.
L’aspetto ambientale rimane in primo piano: lo Stretto di Messina è un paesaggio straordinario da non stravolgere, anche se abbondantemente cementificato; la Val Susa è invece uno dei gioielli di un Piemonte che da sempre ha saputo coniugare difesa dell’ambiente e sviluppo industriale, e sarebbe una beffa della storia invertire la tendenza ora che l’industria non c’è quasi più.
Soldi
La questione principale diventa però quella dei costi, o meglio della destinazione delle risorse. Sia la tratta ad Alta Velocità tra Torino e Lione che il collegamento stabile tra Messina e Villa San Giovanni prevedono spese elevatissime, interamente da coprire con fondi pubblici, che non sono giustificate da grandi incrementi nelle previsioni del traffico merci o passeggeri. Il capoluogo piemontese e la città della Francia non costituiscono un’area integrata, non ci sono grandi flussi di pendolari né di merci che non possano essere coperti dalla linea esistente.
Col TAV si risparmierebbe poco tempo al prezzo di uno scempio ambientale, unito allo sperpero di denaro pubblico. La politica delle grande opere, e il flusso di denaro connesso, potrebbe portare a un indebitamento delle generazioni successive e ipotecare il futuro economico dell’intero Paese. Magari un giorno quelli che sono stati definiti testardi oppositori diventeranno i “profeti” che avevano indicato la strada giusta: utilizzare le poche risorse disponibili per infrastrutture di prossimità, servizi essenziali e stato sociale, che invece sono brutalmente colpiti dai tagli.
A Messina, dopo l’ultima manifestazione No Ponte, alcuni cittadini hanno osservato che non deve esserci incompatibilità – ad esempio – tra riqualificazione del territorio e collegamento stabile sullo Stretto. “Vogliamo sia il Ponte che un territorio sicuro”, dicono. Il movimento, infatti, chiede da anni di stornare i soldi del Ponte per evitare nuove alluvioni e tragedie come quelle di Giampilieri (2009).
Scelte
Le due cose sono compatibili? I fatti dicono di no. Proprio mentre il giro d’Italia passava da Messina, i cittadini chiedevano lo sblocco dei fondi per le zone alluvionate due anni fa, al prezzo di 37 morti. Il giorno prima, gli operai impegnati nelle poche opere di messa in sicurezza già svolte bloccavano la statale per chiedere il pagamento dei compensi maturati e ancora non elargiti. Intanto per il Ponte sono stati recentemente spesi centinaia di milioni di euro per le trivellazioni, il progetto definitivo, il monitoraggio ambientale. Solo per un cantiere preliminare che deve solo spostare un binario (e che ha già quattro mesi di ritardo) sono stanti stanziati 30 milioni di euro.
Lo stesso tema del precariato, secondo alcuni settori avanzati, non si affronta soltanto chiedendo contratti a tempo indeterminato ma con un nuovo welfare, che possa ad esempio supportare i lavoratori nelle pause tra un lavoro intermittente e l’altro, sostenere la ricerca e l’affitto di una casa, estendere benefici di assistenza sanitaria anche a coloro che solo formalmente sono imprenditori, nei fatti dipendenti con partita IVA. Ma dove trovare le risorse? Per esempio dallo spreco di grandi opere che vogliono realizzare infrastrutture non volute e inutili per la collettività, utili solamente alle grandi imprese che le realizzano.
Anche l’immagine di questi comitati di affari va puntualizzata. Somigliano sempre più a macchine del profitto piuttosto che a una congrega di capitalisti col cappello a cilindro. Per esempio, la composizione azionaria di Impregilo è molto frazionata, tanto che non è possibile risalire a un vero e proprio “padrone”. “Il signor Impregilo non esiste”, dice Luigi Sturniolo nel suo ultimo libro elettronico “Le ragioni del No Ponte”.
Macchine
Esistono invece gli azionisti da un lato (che possono essere anche una miriade di piccolissimi risparmiatori) e i manager dall’altro, dipendenti a progetto che si differenziano dai precari “solo” per gli stipendi altissimi, ma che con loro condividono la temporaneità dell’incarico, o meglio l’assoluta necessità di produrre valore per gli azionisti. Ecco quindi che le grandi opere vanno avanti contro tutto e tutti, anche se con una lentezza esasperante e proficua, perché sono diventate essenziali per il sistema, a cui spesso sono associati partiti e cordate politiche; e talvolta gruppi mafiosi.
Tutto questo è fuori dal dibattito mediatico, che ha sempre considerato notizia solo lo scontro di piazza e la protesta localistica, sui cui imbastire noiosi “dibattiti del giardinetto”. Qui, come avete visto, identità e territorio non c’entrano niente. Si parla del destino e del modello in cui vivranno i nostri figli. Si parla di democrazia.