Reggio Calabria. Storie di pizzo

Nel quartiere Archi, dove i clan pretendono il computer e il tecnico gratis

Raffaella Cosentino
  La vicenda di Salvatore D`Amico, impegnato con Libera. I clan pretendevano merce gratis e il tecnico a domicilio per sistemare l`ADSL. Nel 2007 un incendio gli ha distrutto il negozio e non è più riuscito a riaprirlo. Nel quartiere Archi anche aprire un negozio di computer è un`impresa eroica. Ora il commerciante chiede almeno di abolire il bus comunale con lo slogan "Vedo, sento, parlo" perché “è una presa in giro”.
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REGGIO CALABRIA – Tutto quello che è rimasto del negozio d’informatica D’Amico del quartiere Archi di Reggio Calabria sono le foto dei danni su internet e l’indirizzo email della direzione. Salvatore, il titolare, ha 41 anni e le competenze necessarie ad assemblare computer. Quando con l’ultima intimidazione gli hanno devastato l’attività e la vita, era sul punto di fare il salto alla grande distribuzione di computer assemblati nel suo negozio. Stava per assumere 15 giovani perché si ingrandiva. Il 10 settembre 2007 si è svegliato in un incubo e ha visto tutti i risparmi della famiglia e gli investimenti in fumo.

Da tre anni e mezzo non lavora e si era letteralmente chiuso in casa. A cambiare la sua vita è stato l’incontro con un altro imprenditore reggino taglieggiato dalla ‘ndrangheta, Tiberio Bentivoglio, e tramite lui l’adesione a Libera Reggio. Bentivoglio è scampato per miracolo a un agguato inteso a ucciderlo, lo scorso 9 febbraio. “Tiberio era diventato la mia scorta, mi dava l’input a uscire, ora dopo l’attentato non è più possibile – racconta D’Amico – eravamo sempre insieme, poteva succedere in quei momenti. Non sappiamo se è stato colpito per la sua storia di denunce o come esponente di Libera e in attesa che ce lo dicano le indagini, i nostri spostamenti sono sempre più cauti”.

L’informatico si sente “relegato in un limbo curioso”, si muove il meno possibile, ed è sempre scortato dai familiari o dai ragazzi di Libera. Prigioniero in casa propria, è questa la condizione di un cittadino italiano dove comanda la ‘ndrangheta. Ma nonostante la tensione sia alta, questa condizione di timore è sempre migliore di prima, di quando ci si rinchiudeva tra le pareti domestiche per l’isolamento di una città muta difronte a questi drammi.

“Dobbiamo essere in tanti ad aderire alle iniziative antiracket di Libera – sostiene convinto D’Amico – siamo liberi di testimoniare e di far fare ad altri lo stesso percorso, questo non è coraggio, è voglia di tornare a vivere”. Tanto da voler ringraziare Francesco Spanò, un giovane che a febbraio 2010, saputa la sua vicenda, lo ha messo in contatto con Bentivoglio e con il referente di Libera, Mimmo Nasone. “Ora finalmente le cose cominciano ad andare per il verso giusto – dice -,  la speranza è di ricevere i soldi per le vittime del racket ma anche di continuare con la campagna per il consumo critico, alla quale hanno aderito in città 900 persone”.

La ‘ndrangheta si è presa almeno tre anni di vita del giovane imprenditore reggino, dal 2007 al 2010. In realtà, D’Amico era abituato alle minacce, almeno da un decennio per l’attività di consigliere di circoscrizione in un quartiere, Archi, che è tradizionalmente la casa delle famiglie più pericolose della ‘ndrangheta. Una lunga sequenza di intimidazioni. Proiettili di pistola e di fucile sulla serranda del negozio, a Natale del 2006 gli hanno distrutto l’insegna e a luglio del 2007 gli hanno fatto ritrovare un pacco con una bottiglia incendiaria e una miccia davanti all’attività.

“Tutto sempre regolarmente denunciato, anche con nomi e cognomi – racconta l’imprenditore – qui non si chiede il pizzo, semplicemente venivano, prendevano la merce e se ne andavano senza pagare. Pretendevano il tecnico a casa, a spese mie, per la sistemazione dell’antifurto, dell’Adsl e del computer”. Sempre persone riconducibili ai clan della zona, sulle quali sono in corso le indagini. “La mattina del 10 settembre 2007 avevo il negozio chiuso per ferie – continua – un collaboratore passando ha visto la serranda a metà e mi ha avvisato per telefono. La serranda era tutta annerita, dentro era bruciato tutto, chi ha compiuto l’attentato conosceva bene il negozio.

C’erano le porte tagliafuoco e questo ha impedito che l’incendio si propagasse nella notte al colorificio accanto, pieno di sostanze infiammabili. Poteva venire giù il palazzo, comprese le abitazioni al piano di sopra”. L’antifurto ha suonato per sette volte per almeno 45 secondi alla volta, il negozio è stato devastato, è crollato parte del soffitto, ma nessuno ha sentito o visto niente, nemmeno puzza di fumo. Nessuno ha avvisato i soccorsi con una telefonata. E’ questo che ha scioccato profondamente D’Amico. Oltre alle conseguenze: conoscendo la sua storia nessuno voleva più affittargli i locali per riaprire l’attività.

Soltanto ora ha trovato un amico che gli mette a disposizione uno spazio gratuitamente per farlo ripartire. La solitudine è stata rotta dall’incontro con Libera, le istituzioni sono rimaste lontane, tranne la Prefettura e la Confcommercio. “C’era stata una campagna del comune ‘io vedo, io sento, io parlo’, un protocollo presentato in pompa magna con Tano Grasso, al quale io e Tiberio abbiamo chiesto di aderire, ma è stata solo una mossa elettorale – conclude – in città ci è rimasto un autobus con questo slogan. Chiediamo che sia abolito, vederlo girare per le strade per noi è una presa in giro, ci riapre le ferite”.

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