LICATA (Ag) – “L’Antiracket qui non ha funzionato. Il pizzo si è molto sofisticato, non è più il sistema rozzo di prima e l’illegalità ha confini così dilatati che servono attività investigative lunghe e complesse”. E’ il bilancio negativo tracciato dall’ingegnere Roberto Di Cara, vicepresidente dell’Antiracket a Licata, dopo cinque anni di attività dell’associazione, che si è costituita in città nel 2006 per far fronte soprattutto al problema dell’usura. Il presidente è padre Tonino Licata, che è tornato nella città d’origine dopo essere stato a Capo D’Orlando (Me). Lì, nei primi anni Novanta, nacque nella sua parrocchia l’Acio, l` Associazione commercianti imprenditori orlandini, presieduta da Tano Grasso, l’incipit dell’Antiracket italiano.
Così è nata l’idea di ripetere l’esperienza anche in provincia di Agrigento, sulla scia di quanto faceva l’allora sindaco Rosario Crocetta nella vicina Gela. Anche a Licata, attentati, intimidazioni e auto bruciate bersagliavano i commercianti. “Da noi le indagini raramente sono andate in porto, tranne qualche caso – denuncia Di Cara – e non c’è stata grande adesione, la città non ha risposto perché è più facile rivolgersi all’usuraio che alla banca o allo stato. Non siamo riusciti a incidere su questo livello culturale”.
L’antiracket non ha attecchito, l’usura è ancora molto diffusa, in paese le difficoltà economiche sono pesantissime e le attività commerciali non reggono con la crisi. “La questione è un sistema economico che funzioni legalmente – dice Di Cara – il terreno d’azione deve essere il supporto dello Stato per non spingere gli imprenditori a rivolgersi a un usuraio”. L’attuale normativa antiracket distorce le cose, secondo il vicepresidente dell’associazione a Licata. “Il fatto che venga data indennità a chi denuncia il pizzo ha fatto sì che la cosa centrale diventasse ottenere questi soldi – afferma – per cui non si riusciva più a distinguere se le denunce venivano fatte per opporsi al racket o per ottenere il fondo di ristoro da parte della commissione nazionale antiracket.
Tu assistevi l’imprenditore agricolo che ha subito usura per fargli ottenere l’indennità prevista dalla normativa invece di aiutare a diffondere una cultura antimafia. Denunciando si ottenevano due cose: non pagare più l’usuraio e avere il contributo da parte dello Stato, ma non è così che diffondiamo la cultura della legalità”.
Un altro problema è costituito dall’evoluzione del pizzo nel controllo del territorio. In gergo mafioso si chiede “la messa a posto”, ma l’estorsione è inutile in un sistema di economia depressa in cui non girano soldi, come quella di alcune aree della Sicilia. “Non si chiede il pizzo se un’attività non guadagna – spiega Di Cara – il mafioso deve essere riconosciuto nel territorio, la mafia non è clandestina. Negli ultimi periodi si è notato che il problema non è tanto chiedere i soldi, è diventato troppo pericoloso”.
La “messa a posto” c’è ancora nell’attività edilizia, ma non passa più per la richiesta monetaria. Si obbliga la ditta ad acquistare forniture, servizi di guardiani e subappalti dalle imprese mafiose. E’ il pizzo con la fattura. Il prezzo è quello di mercato ma l’imprenditore non ha scelta sulla qualità del servizio, è obbligato a rivolgersi ai mafiosi.
Licata vive di agricoltura intensiva, con le serre che producono tre raccolti all’anno. Anche qui la nuova mafia stravince grazie alle regole della grande distribuzione organizzata. Non ci sono più i mercati ortofrutticoli dove si faceva la contrattazione. L’agricoltore porta il prodotto nel magazzino, lo lascia senza sapere quanto sarà pagato. Il prezzo si fa quando la frutta e la verdura arrivano a Fondi e a Milano, il guadagno va tutto in mano al mediatore, che di solito è il proprietario del magazzino.
“Il confine tra legalità e illegalità scema sempre, questi magazzini detengono il monopolio – spiega il vicepresidente dell’antiracket cittadino -. Si innesta lì tutto il circuito finanziario, perché per impiantare un’azienda agricola hai bisogno di molti soldi e se le banche non te li prestano, quello del magazzino presta i soldi per le attrezzature, per comprare le piantine. Il sistema controlla l’attività economica ed è difficile chiamarlo ‘illegale’, lo diventa quando ci sono le imposizioni”.
Dagli anni Ottanta, l’agricoltura licatese si fa in serra, ma serve acqua tutto l’anno, oltre al fatto che per impiantare una serra servono i teli di plastica, le piantine, i diserbanti e i concimi, costosi perché c’è un sistema di multinazionali a gestirli. “A Licata non c’è un sistema idrico che rifornisce l’agricoltura – continua Di Cara – l’acqua si è trovata in gran parte illegalmente rompendo le condotte pubbliche. Acqua ce n’è poca e quando non piove, il sistema di controllo del territorio controlla l’approvvigionamento illegale dell’acqua. L’agricoltore nemmeno paga l’acqua, ma i rubinetti sono in mano ai mafiosi, spesso gli stessi che controllano il magazzino al quale poi l’imprenditore agricolo è obbligato a conferire i suoi prodotti se vuole lavorare”.