La politica dei disastri diventa prostituzione del territorio

Il fango di Messina è il laboratorio della Shock Economy

Luigi Sturniolo
  Dopo l`ennesima alluvione, andrebbe messo in discussione il modello di gestione del territorio, l’aggressione cui è stato sottoposto, la cementificazione, l’annullamento dei torrenti, l’abbandono delle coltivazioni, le speculazioni edilizie, l’assalto alle colline. Invece prevale ancora la politica dei disastri e delle emergenze. Anche perché è diventato l`unico modo per ottenere fondi pubblici.
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Non ci vogliono occhi da esperti per individuare le colate di fango che si sono aperte sulle colline messinesi, da nord a sud, in seguito al nubifragio del primo marzo. Hanno un aspetto del tutto simile a quelle manifestatesi il primo ottobre del 2009. Soltanto, stavolta, hanno un ghigno un po’ meno sinistro perché non hanno portato la stessa quantità di morte di allora. Ma è stato un caso. Basta vedere il video girato a Mili per rendersi conto di cosa sarebbe potuto succedere.

Cosa si farà adesso? Si continuerà ad andare a caccia di frane e a intervenire su ognuna di esse? Forse sarà necessario farlo, ma senz’altro il primo marzo ci dice, se ce ne fosse stato ancora bisogno, che il problema è strutturale, che non può essere affrontato in termini di aggiustamenti, che in discussione è il modello di gestione del territorio, l’aggressione cui è stato sottoposto, la cementificazione, l’annullamento dei torrenti, l’abbandono delle coltivazioni, le speculazioni edilizie, l’assalto alle colline. Potrà sembrare velleitario, ma non c’è alternativa al cambiare tutto, voltare pagina. E questo necessita anche di atti politici e cambiamenti politici, poiché è chiaro che chi ha dato copertura politica al modello in vigore non potrà essere la cura del male essendone parte della causa.

C’è, però, un’altra evidenza in quanto accaduto il primo marzo ed è che gli eventi più gravi e anche mediaticamente più spettacolari (si pensi alle macchine trascinate via dal fango) hanno interessato i torrenti coperti. In un articolo pubblicato subito dopo gli eventi il prof. Franco Ortolani, Ordinario di Geologia all’ Università di Napoli Federico II, così spiegava il fiume di fango che aveva investito Mili San Pietro: “La portata torrentizia è stata tale da non poter essere smaltita dalla fognatura sotto la strada per cui, probabilmente anche a causa di una parziale ostruzione dell’imbocco dell’alveo coperto, una notevole quantità di acqua e detriti con alberi si è riversata lungo la strada che si chiama Via Vallone”.

L’ingegnere Capo del Genio Civile di Messina, Gaetano Sciacca, invece, intervistato da una radio cittadina nel vivo del nubifragio spiegava l’inondazione sulla copertura del torrente Camaro con la mancata manutenzione del sistema di tombinature che avrebbe impedito il deflusso delle acque. Insomma, in questi casi, non è solo la fragilità del territorio a determinare le criticità ma concausa determinante risulta essere l’assoluto stato di abbandono in cui versano i torrenti e le strade.

A commento di quanto accaduto il prof. Ortolani così concludeva nell’articolo citato: “Niente di nuovo: il solito elenco di danni. Purtroppo destinato ad aggravarsi di anno in anno dal momento che i finanziamenti pubblici destinati alla difesa del suolo sono stati drasticamente ridotti. Anche qui, niente di nuovo. Inutile prevenire i danni e le vittime. Meglio che si verifichino i disastri in modo che a cose fatte si deve assolutamente intervenire in situazioni emergenziali che obbligatoriamente richiedono l’uso di poteri speciali e il conseguente disinvolto ricorso a deroghe nell’eseguire interventi senza il rispetto delle normali leggi che regolamentano la spesa pubblica”.

Prostituzione del territorio

Il meccanismo è cioè quello sperimentato della shock economy: la crisi economica determina una drastica riduzione delle risorse destinate alla cura dei luoghi e dei servizi, questa favorisce l’insorgere di eventi emergenziali, infine, attraverso la politica dei disastri, caratterizzata da commissariamenti e deroghe alla norma, si agisce con una assoluta verticalizzazione delle scelte e la totale assenza di partecipazione democratica. E questo a volere giudicare politicamente il meccanismo, ma le cricche e la corruzione evidenziate, ad esempio, dalle inchieste sul terremoto di L’Aquila ci dicono cosa possa avvenire a corredo di questi metodi. Le immediate richieste di riconoscimento di stato di calamità e/o d’emergenza da parte dei sindaci confessano, d’altronde, l’oggettiva convenienza dei disastri per le amministrazioni, essendo quello l’unico requisito per avere flussi finanziari consistenti. I casi di cronaca che segnalano l’utilizzo di fondi per le calamità per risolvere problemi legati all’ordinario funzionamento dei comuni farebbero tenerezza se non fossero speculazioni sulle sofferenze dei cittadini.

Il modello appena descritto si applica anche alle grandi opere verso le quali è avvenuto, negli ultimi anni, un processo di concentramento della spesa destinata alle infrastrutture pubbliche. I meccanismi di verticalizzazione delle scelte e l’assoluta assenza di potere decisionale dei territori, e fin’anche degli istituti della rappresentanza politica, associati all’interessamento di solo pochi grossi contractor che si spartiscono gli investimenti in Italia sono del tutto analoghi a quanto accade nelle emergenze (così come nella gestione dei grandi eventi). Alle amministrazioni locali non rimane altro che candidare il proprio territorio a essere luogo deputato a tali intraprese (spesso opere a forte impatto sull’ambiente e sulla vita dei cittadini) per poter fruire in questo modo (e solo in questo modo) di flussi di denaro e, magari, attraverso il meccanismo della compensazione del danno, poter “grattare” qualche strada, svincolo, porticciolo, giardino da tempo progettati e mai realizzati per carenza di fondi. Tutto ciò, naturalmente, senza alcun potere decisionale, sempre col cappello in mano nell’atto della questua, corrispondendo a uno schema di prostituzione del territorio.

Protagonismo sociale

Messina, la città “babba”, mette insieme, quindi, la grande emergenza del dissesto idrogeologico con il progetto di costruzione del Ponte sullo Stretto (la madre di tutte le grandi opere). Messina è, da questo punto di vista, un vero e proprio laboratorio, il luogo di sperimentazione di una politica, ma un luogo di sperimentazione, anche, dei conflitti in difesa dei territori. Il pieno dispiegarsi di un modello ci permette, infatti, di capire che in ballo non c’è solo la disputa in difesa dell’ambiente o la richiesta di fondi per la messa in sicurezza. E’ già successo che lotte e mobilitazioni (pensiamo al movimento contro l’attraversamento della città da parte dei Tir) si siano tradotte in commissariamenti che sempre più hanno allontanato i cittadini dalla possibilità di partecipare alle scelte. Non si tratta, quindi, di rivendicare solo e semplicemente risorse per la messa in sicurezza del territorio (fossero anche quelli destinate al Ponte, per i quali il movimento si batte da tempo).

Si tratta di produrre un protagonismo sociale che consenta agli abitanti dei luoghi di essere soggetti attivi e consapevoli delle politiche messe in atto. Si tratta di restituire capacità decisionale e progettuale alla società. Si tratta di capovolgere l’ordine del discorso corrente e far sì che dal basso si costruisca una nuova opzione per il futuro. L’assemblea No Ponte del 12 marzo, che si svolgerà nell’aula di ex-chimica dell’Università di Messina, autogestita dagli studenti che in questi mesi si sono mobilitati in difesa dell’istruzione pubblica, sarà l’occasione per discutere e mettere a verifica i processi in corso e le strategie dei movimenti e della società civile.

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