LOS TEQUES – “Si dorme sempre con un occhio chiuso e un occhio aperto. Il rischio è permanente”. La vita in carcere è una lotta per non soccombere. Così racconta Enza, detenuta per tre anni nel centro femminile Inof a Los Teques e oggi in libertà condizionale.
“Nel bagno ci sono i serpenti – dice la donna di Napoli e con due figli che l’aspettano in Italia -. Non c’è il water né il lavandino. Non c’è luce elettrica”. Da un anno è fuori. Quando è uscita ha lavorato come segretaria a Caracas, poi ha affittato i telefonini per la strada e oggi dà una mano nel mercato di Los Teques, cittadina limitrofa alla capitale.
“Le condizioni della struttura dove dormono le detenute in libertà condizionale – che hanno l’obbligo di tornare in carcere ogni sera – sono pessime”. Arrestata all’aeroporto di Caracas, fra lei e il suo compagno trasportavano 28 kg di cocaina. Lui l’aveva invitata a farsi una vacanza in Venezuela, poi le aveva proposto di tornare in Italia con una valigia ‘molto preziosa’.
‘Carne fresca’: così chiamano le nuove arrivate in carcere. “Quando sono entrata non parlavo spagnolo ed era molto difficile difendersi. Ricevevo minacce tutti i giorni da parte delle detenute ‘malandras’, a volte anche con dei coltelli. La direttrice del carcere non ha potere. La prova è per esempio che, delle 47 donne in libertà vigilata, solo sette tornano la sera all’Inof”.
E’ più duro per le straniere. Non hanno la loro famiglia, un aiuto esterno, una casa quando escono dal carcere. Piccola contraddizione: devono trovare un lavoro per accedere al beneficio della libertà condizionale ma gli viene sotratto il documento d’identità. Il Consolato fortunatamente fornisce un appoggio. A dicembre c’è stato un tumulto all’interno dell’Inof.
“E’ stato fatto per appoggiare la ribellione in atto in un altro carcere maschile. Se non ti alzavi dal letto per scioperare le cape malandras ti obbligavano”. Così Digna ricorda i momenti difficili dell’ammutinamento durato tre giorni nel dicembre 2009 in cui è dovuta intervenire la polizia per ristabilire l’ordine. “Dopo il tumulto, sono state mandate via le persone pericolose – spiega, Digna, italo-dominicana, con la prudenza di chi ha già capito come funzionano le cose -. Adesso c’è meno rischio di essere accoltellate o derubate”.
Sposata con un italiano e con due figli in Italia, era venuta in Venezuela per sottoporsi a un intervento estetico. Arrestata all’aeroporto a La Guaira con 300 gr di cocaina sei mesi fa, oggi lavora nel piccolo negozio di alimentari all’interno dell’Inof. Le grida delle detenute durante il tumulto erano state chiare. Avevano denunciato le gravi carenze nel servizio di trasporto dal carcere al tribunale.
“La giustizia è lenta – afferma Liliana, italo-venezuelana, arrestata sei mesi fa per truffa -, inoltre se non andiamo al tribunale per mancanza dell’autobus, si crea un nuovo ritardo nel processo penale”. Liliana, 39 anni, ispettrice del rischio della protezione civile, è stata arrestata perché riscuoteva 400 Bs F (circa 75 €) in cambio dell’erogazione del beneficio della ‘Ley de politica habitacional’. Nella truffa era implicato un commissario della polizia che è scomparso. Come spesso succede sono arrestati i pesci piccoli, ma mancano all’appello in carcere i pesci grossi.
Alle detenute dell’Inof vengono serviti tre pasti, ma oltre a quelli devono comprare tutto: dall’acqua, alle medicine, alla carta e ai prodotti per l’igiene. I prezzi inoltre sono più alti che fuori: una banana costa un euro quando in un supermercato costa 50 centesimi.
“Questo è un carcere di lusso rispetto a quello degli uomini – racconta Daniela arrestata tre anni fa sempre all’aeroporto dopo aver passato la valigia contenente 1,5 Kg di cocaina sotto i raggi x -. Qui c’è l’asilo per i bambini figli di detenute nati in carcere, la scuola, i corsi di artigianato e di musica. Ma, come tutti sanno, non manca la droga: cocaina, crack e marijuana. E non mancano neanche le armi bianche: coltelli e lamette”.
Nella disperazione della cella e nel cammino difficile che comincia all’uscita dal carcere, senza un lavoro, senza un documento, con il marchio dell’antecedente penale, in un paese in cui la droga ha costi bassissimi e quindi il rischio di ricadervi è alto, le detenute hanno l’appoggio di Renata Mascitti, la vice-console onoraria di Los Teques.
“Meno male che lei c’è sempre” dicono. Le iniziative: bambole e pantofole
Nell’oscurità c’è sempre una luce. Il lavoro di assistenza psicologica e la consegna del sussidio proveniente dal Consolato alle detenute dell’Inof è svolto dalla vice-console onororaria di Los Teques, Renata Mascitti.
Ogni mese da tre anni si reca al carcere per dare alle detenute, oggi tre, oltre ai soldi, assorbenti, shampoo, carta igienica, sapone e se necessario medicine, visto che dentro hanno prezzi proibitivi. Per Natale gli ha portato un pandoro e 100 Bs in più di quello che ricevono tutti i mesi. Alle due che stanno in semi-libertà continua a dare l’appoggio psicologico.
“Hanno svolto tre lavori manuali nell’ultimo anno – così racconta Mascitti della sua iniziativa -. Ho comprato i materiali e le detenute hanno fatto con le loro mani delle bambole di plastica, dei portasciugamani e delle pantafole in stile natalizio. Sono riuscite a venderle e con i ricavi hanno comprato i nuovi materiali”.
Non sarà il lavoro a dare dignità alle donne? Alle detenute dà l’incentivo per poter costruire una vita diversa all’uscita dalla cella.
L’ammutinamento nel penitenziario dell’Inof
Il tumulto dentro il centro di detenzione femminile Inof, iniziato il 6 dicembre 2009, durato ben tre giorni, si è concluso con la destituzione della direttrice, Isabel Gonzalez. L’obiettivo delle cinquecento detenute era denunciare le violazioni di diritti umani che si consumavano quotidianamente nell’Inof.
Il secondo giorno di ribellione, le recluse avevano minacciato di morte Gonzalez, avevano il controllo della struttura, avevano bruciato dei materassi e avevano chiesto l’accesso nell’Inof dei media affinché riportassero le presunte irregolarità che denunciavano. Cinque detenute avevano cercato di scappare dall’ingresso principale del carcere e molte altre erano in possesso di oggetti taglienti.
Il terzo giorno, le forze dell’ordine erano entrate nel carcere e avevano lanciato delle bombe lacrimogene attraverso le finestre. Il saldo dell’ammutinamento: molteplici donne si erano tagliate le vene e venti erano rimaste ferite.
Non solo Venezuela: l’incubo delle carceri messicane
CITTÀ DEL MESSICO – Al termine di una vacanza nel febbraio 2007, il giovane Simone Renda – oltre a subire il furto di contanti, carte di credito, documenti ed altri effetti personali – fu arbitrariamente arrestato. E, nonostante il parere di un medico (che prescrisse l’immediato ricovero in ospedale, a causa di precarissime condizioni di salute), fu dimenticato in cella d’isolamento, senza acqua, né cibo. Come se non bastasse, sia il certificato di morte del Messico, che l’autopsia eseguita a Lecce, evidenziarono segni di percosse (una ferita in fronte e lividi sulle braccia).
Né la famiglia, né il Consolato, furono tempestivamente avvisati dell’abusiva detenzione. Non gli venne messo a disposizione né un interprete, né un legale. Insomma, fu trattato alla stregua di un oggetto.
L’anno scorso la svolta: gli inquirenti hanno emesso un mandato di cattura per sei funzionari delle forze dell’ordine messicane. L`Interpol condurrà in Italia i poliziotti indagati per rispondere all’accusa di omicidio volontario commesso con l’aggravante della crudeltà. È la prima volta che si applica in Italia la Convenzione contro la tortura a degli stranieri che hanno commesso il delitto contro un connazionale all’estero. Speriamo che in caso di condanna, facendo giurisprudenza, la sentenza funzioni come una tutela per gli italiani detenuti all’estero.