1. Il 24 dicembre 2010 è scaduto il termine di attuazione della Direttiva 2008/115/CE sui rimpatri, senza che l’Italia vi desse attuazione. Per effetto del consolidato diritto comunitario, una volta scaduto il termine di attuazione, fatta salva la responsabilità dello stato per i danni derivanti da tale omissione, la Direttiva può comunque essere utilizzata dal giudice interno, che può disapplicare le norme interne che risultino contrastanti, costituendo un criterio prevalente di interpretazione della complessiva normativa previgente.
La Direttiva comunitaria impone agli organi competenti ( Prefettura e Questura) di considerare l’espulsione con invito a lasciare il territorio nazionale, il cd. rimpatrio volontario, prima di adottare provvedimenti di allontanamento forzato, che comunque possono essere assunti solo sulla base della considerazione individuale del singolo caso, senza quegli “automatismi” ( accompagnamento forzato e trattenimento amministrativo) introdotti dalla legge Bossi-Fini n.189 del 30 luglio 2002, che abrogava il vecchio articolo 13 comma 6, introdotto con la legge Turco-Napolitano, che prevedeva nella maggior parte dei casi la possibilità di espulsione “con intimazione” a lasciare il territorio dello stato. Da quel momento le espulsioni con accompagnamento forzato diventavano la regola generale di esecuzione dei provvedimenti di allontanamento degli stranieri irregolari. Questi “automatismi” erano stati ulteriormente aggravati dalla creazione del reato di immigrazione clandestina, con la legge n. 94 del 2009 che si sovrapponeva evidentemente alla misura amministrativa dell’espulsione allo scopo di rendere più veloci le stesse procedure di accompagnamento forzato in frontiera. Un tentativo fallito che ha comportato soltanto una diffusa criminalizzazione degli immigrati irregolari, l’ingolfamento degli uffici giudiziari, ed una costante diminuzione del numero delle persone che, risultando prive di validi titoli di soggiorno, sono stati effettivamente allontanati dal territorio dello stato.
La Direttiva 2008/115/CE dovrà essere attuata attraverso modifiche sostanziali e procedurali nella normativa italiana sulla detenzione amministrativa nei centri di identificazione ed espulsione (CIE), quei centri che una volta si chiamavano CPTA, centri di permanenza temporanea ed assistenza, che persero subito qualunque connotazione assistenziale, come ricorda la strage del Vulpitta a Trapani nel 1999, e che oggi continuano a costituire una violazione flagrante e generalizzata dei più elementari diritti della persona. Diritti fondamentali menzionati dalla Direttiva comunitaria con particolare riferimento alle persone “vulnerabili”, ma previsti per tutti anche dalla Costituzione italiana, agli articoli 13 ( diritto alla libertà personale), 24 ( diritti di difesa) , 32 ( diritto alla salute), da riconoscere a qualunque immigrato, quale che sia la condizione di soggiorno, come impone l’art.2 del T.U. n.286 del 1998 in materia di immigrazione.
In base al Considerando 16 della Direttiva comunitaria, che ha acquistato adesso una precisa portata precettiva sul piano del diritto interno, “ il ricorso al trattenimento ai fini dell’allontanamento dovrebbe essere limitato e subordinato al principio di proporzionalità con riguardo ai mezzi impiegati e agli obiettivi perseguiti. Il trattenimento è giustificato soltanto per preparare il rimpatrio o effettuare l’allontanamento e se l’uso di misure meno coercitive è insufficiente”.
L’art.14 della Direttiva suggella il carattere residuale della detenzione amministrativa, in quanto il trattenimento risulta applicabile solo quando “non possano essere efficacemente applicate altre misure sufficienti ma meno coercitive”.
Nei casi in cui sia evidente la impossibilità di procedere al rimpatrio forzato, come ad esempio dopo periodi di trattenimento in carcere o nei CIE, seguiti dalla rimessione in libertà, o quando manca la collaborazione dei consolati dei paesi di provenienza nel fornire i documenti di viaggio, la detenzione amministrativa rimane dunque priva di fondamento. In ogni caso, secondo l’art. 15 della direttiva, il trattenimento deve avere la durata più breve possibile ed è soggetto a riesame “ad intervalli ragionevoli”.
2. L’introduzione del reato di immigrazione clandestina in Italia tendeva in realtà ad evitare che la direttiva rimpatri potesse trovare una effettiva applicazione nel nostro paese. La Direttiva 2008/115/CE sui rimpatri, all’art. 2.2, prevedeva infatti che “Gli Stati membri possono decidere di non applicare la presente direttiva ai cittadini di paesi terzi:
a) sottoposti a respingimento alla frontiera conformemente all’articolo 13 del codice frontiere Schengen ovvero fermati o scoperti dalle competenti autorità in occasione dell’attraversamento irregolare via terra, mare o aria della frontiera esterna di uno Stato membro e che non hanno successivamente ottenuto un’autorizzazione o un diritto di soggiorno in tale Stato membro;
b) sottoposti a rimpatrio come sanzione penale o come conseguenza di una sanzione penale, in conformità della legislazione nazionale, o sottoposti a procedure di estradizione.
Si deve tuttavia escludere che la Direttiva comunitaria si riferisse al reato di immigrazione clandestina come presupposto che ne avrebbe impedito l’applicazione. In questo caso, se l’intento degli autori della Direttiva fosse stato quello di negarne l’applicazione per gli stranieri ritenuti “colpevoli” del reato di immigrazione clandestina, un reato variamente previsto nell’ordinamento di numerosi stati membri, si potrebbe ritenere che l’Unione Europea abbia adottato una normativa destinata a rimanere inattuata perché rivolta a persone che nella quasi totalità potevano ritenersi “responsabili” di tale reato. Una interpretazione che contrasta con gli indirizzi interpretativi della Corte di Giustizia di Lussemburgo che tende ad attribuire il carattere della effettività agli atti delle istituzioni comunitarie..
A livello comunitario dovrebbe essere chiaro che i reati che escludono l’applicazione della direttiva sono quelli propri, come ad esempio la rapina, e non quelli connessi alla semplice presenza irregolare dello straniero nel territorio dello stato. E dunque la previsione del reato di immigrazione clandestina, recentemente introdotta dal nostro legislatore con il d.lgs. n.94 del 2009, adesso ridimensionata da un recente intervento del giudice costituzionale, non può bloccare l’applicazione in Italia della direttiva comunitaria sui rimpatri. Infatti, per quanto riguarda l’ordinamento giuridico italiano, la più recente giurisprudenza costituzionale ha adottato decisioni che potrebbero ridurre notevolmente l’area applicativa del reato di immigrazione clandestina, riaprendo la partita sulla costituzionalità- ancora assai dubbia- di tale fattispecie penale, legata, nel caso di soggiorno irregolare, più ad una condizione esistenziale che alla commissione di una specifica violazione di legge. Su questi punti, se i giudici interni non forniranno interpretazioni conformi al dettato della Direttiva 2008/115/CE, e se la Corte Costituzionale non ritornerà sulla questione del reato di immigrazione clandestina, nella configurazione che ne risulta oggi, dopo gli interventi legislativi contenuti negli ultimi “pacchetti sicurezza”, non resterà altra via che il ricorso alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea, e forse anche alla Corte Europea dei diritti dell’Uomo.
3. La Corte costituzionale, che pure aveva fatto salvo il reato di immigrazione clandestina, con la sentenza n. 359/2010 del 17 dicembre 2010 ha dichiarato incostituzionale il reato di permanenza nel territorio dello Stato dell’immigrato espulso già precedentemente e che non ha rispettato l’ordine del Questore di lasciare il territorio nazionale, nella parte in cui non prevede che non sia punibile lo straniero inottemperante in quanto privo dei mezzi necessari perché indigente. L’art. 14, comma 5-quater del testo unico delle leggi sull’immigrazione, come modificato dalla legge n. 94/2009, risulta dunque incostituzionale nella parte in cui non dispone che l’inottemperanza all’ordine di allontanamento, secondo quanto già previsto per la condotta di cui al precedente comma 5-ter, sia punita nel solo caso che abbia luogo «senza giustificato motivo».
Secondo la Corte, la clausola del «giustificato motivo» risulta tra quelle «destinate in linea di massima a fungere da “valvola di sicurezza” del meccanismo repressivo, evitando che la sanzione penale scatti allorché – anche al di fuori della presenza di vere e proprie cause di giustificazione – l’osservanza del precetto appaia concretamente “inesigibile” in ragione, a seconda dei casi, di situazioni ostative a carattere soggettivo od oggettivo». Tale clausola, pertanto, nella ricorrenza di diverse eventualità di fatto (estrema indigenza, indisponibilità di un vettore o di altro mezzo di trasporto idoneo, difficoltà nell’ottenimento dei titoli di viaggio, etc.), «esclude la configurabilità del reato» (sentenza n. 5 del 2004).
Nell’ipotesi di inottemperanza all’ordine di allontanamento emesso dopo un analogo provvedimento, a sua volta non osservato, la Corte si chiede se si profili una situazione sostanzialmente diversa, tale da giustificare un differente trattamento dello straniero colpito da provvedimento di espulsione. La Corte rileva che “se una particolare situazione è tale da giustificare il mancato allontanamento entro cinque giorni, non si vede perché la considerazione giuridica della stessa debba mutare radicalmente per il semplice fatto che la situazione permanga, si ripresenti o insorga in occasione di un successivo ordine di allontanamento. (…) Un estremo stato di indigenza, che abbia di fatto impedito l’osservanza dell’ordine del questore nello stretto termine di cinque giorni, non diventa superabile o irrilevante perché permanente nel tempo o perché insorto o riconosciuto in una occasione successiva. Il ragionamento della corte è tutto basato sulla considerazione che il rimedio ordinario previsto dalla normativa italiana per la presenza illegale nel territorio dello Stato del destinatario di un provvedimento di espulsione – occorre ricordarlo – è l’esecuzione del provvedimento stesso con accompagnamento forzato in frontiera. Secondo la Corte “in assenza di tale misura amministrativa, l’affidamento dell’esecuzione allo stesso soggetto destinatario del provvedimento incontra i limiti e le difficoltà dovuti alle possibilità pratiche dei singoli soggetti, che il comma 5-ter dell’art. 14 del d.lgs. n. 286 del 1998 ha preso in considerazione, in un ragionevole bilanciamento tra l’interesse pubblico all’osservanza dei provvedimenti dell’autorità, in tema di controllo dell’immigrazione illegale, e l’insopprimibile tutela della persona umana. Tale tutela non può essere esclusa o attenuata in situazioni identiche, ancorché successive, senza incorrere nella violazione dell’art. 3, primo comma, Cost. ”
Appare evidente a questo punto come, una volta ribaltato il rapporto tra espulsione con invito a lasciare il territorio ed espulsione con accompagnamento forzato, operato per effetto della applicazione diretta della direttiva sui rimpatri 2008/115/CE, a partire dal 24 dicembre 2010, termine di scadenza per l’attuazione della direttiva, le stesse considerazioni utilizzate dalla Corte per escludere la responsabilità penale qualora ricorra un “giustificato motivo” nei confronti di chi risulti inottemperante ad un ordine di lasciare il territorio dello stato, dovrebbero portare alla incostituzionalità del reato di immigrazione clandestina, almeno nella parte in cui questo reato si configura con il semplice soggiorno irregolare della persona. Inoltre se nella direttiva rimpatri si impone agli stati di valutare caso per caso le situazioni degli stranieri che sono trovati nel territorio nazionale privi di documenti di soggiorno, questa previsione assume oggi valore vincolante anche per il giudice interno che dovrà disapplicare le norme che risultino in conflitto con il diritto comunitario, o rimettere la questione alla Corte costituzionale, per il contrasto evidente della disciplina recata dagli articoli 13 e 14 del Testo Unico sull’immigrazione che prevedono misure sanzionatorie a carattere automatico e generalizzato, con il dettato ormai vincolante della Direttiva 2008/115/CE.
Il 27 dicembre 2010 il Pubblico Ministero di Milano Claudio Gittardi, applicando la sentenza n.359 adottata pochi giorni prima dalla Corte costituzionale, ha deciso di rimettere in libertà due giovani immigrati egiziani di 18 e 21 anni che erano rimasti in Italia nonostante due provvedimenti di espulsione con accompagnamento forzato firmati dal questore. Il Pubblico Ministero di Milano ha valutato che i due giovani avevano “giustificati motivi” per non lasciare l’Italia,in particolare lo stato di povertà nel quale si trovavano.
Anche ritenendo preclusiva l’esistenza di un reato come quello di immigrazione clandestina, la Direttiva comunitaria sui rimpatri, nelle parti che si sono richiamate, dovrà essere applicata in tutti i casi che rientrano nell’ambito della decisione della Corte Costituzionale secondo la quale non ricorre comunque reato quando l’immigrato irregolare non ottempera all’ordine di espulsione dell’immigrato irregolare per un “giustificato motivo”. Si potrà certo obiettare che in quel caso ricorreva già il reato di immigrazione clandestina, per il solo soggiorno senza regolari documenti, ma le considerazioni adottate dalla Corte dovrebbero indurre a ritenere che il “giustificato motivo” che esclude il reato di inottemperanza all’ordine di allontanamento possano valere anche nella ipotesi più lieve di soggiorno irregolare. Una ipotesi di reato, seppure contravvenzionale, che proprio per il suo “automatismo”, conseguendo da qualunque ipotesi di presenza irregolare, oggi si trova in contrasto anche con la direttiva comunitaria sui rimpatri.
4. La stessa Direttiva 2008/115/CE mantiene carattere vincolante per tutti gli stati, e quindi anche per l’Italia, nella parte in cui li obbliga ad adottare preliminarmente forme di rimpatrio volontario, anche imponendo obblighi diretti a evitare il rischio di fuga, come l’obbligo di presentarsi periodicamente alle autorità, la costituzione di una garanzia finanziaria adeguata, la consegna di documenti o l’obbligo di dimorare in un determinato luogo, prima di procedere al rimpatrio (con trattenimento ed) accompagnamento forzato. La mera presenza sul territorio in assenza di validi documenti di soggiorno, se può preludere ad un rimpatrio volontario, misura da adottare a preferenza delle altre, non può comportare come conseguenza automatica la commissione di un reato.
In base alla Direttiva, il rimpatrio con accompagnamento forzato può essere disposto solo se “sussista il rischio di fuga o se una domanda di soggiorno regolare è stata respinta in quanto manifestamente infondata o fraudolenta o se l’interessato costituisce un pericolo per l’ordine pubblico, la pubblica sicurezza o la sicurezza nazionale”. In questi casi gli Stati membri “possono astenersi dal concedere un periodo per la partenza volontaria o concederne uno inferiore a sette giorni. Ma comunque, gli Stati membri devono tenere “nella debita considerazione:
a) l’interesse superiore del bambino;
b) la vita familiare;
c) le condizioni di salute del cittadino di un paese terzo interessato;
e rispettano il principio di non-refoulement” ( non respingimento in violazione dell’art.33 della Convenzione di Ginevra sui rifugiati). Inoltre la stessa Direttiva Comunitaria 2006/115/CE prevede che ( art. 8) “Ove gli Stati membri ricorrano – in ultima istanza – a misure coercitive per allontanare un cittadino di un paese terzo che oppone resistenza, tali misure sono proporzionate e non eccedano un uso ragionevole della forza. Le misure coercitive sono attuate conformemente a quanto previsto dalla legislazione nazionale in osservanza dei diritti fondamentali e nel debito rispetto della dignità e dell’integrità fisica del cittadino di un paese terzo interessato”.
Di fronte a queste precise disposizioni la considerazione delle norme di diritto interno che disciplinano espulsioni e trattenimento nei CIE rimane affidata ad elevati indici di discrezionalità di polizia. E sono numerosi i rapporti delle organizzazioni internazionali che documentano il fallimento delle pratiche di allontanamento forzato, lo stato deplorevole di trattenimento nei CIE e l’assenza di un effettivo esercizio dei diritti di difesa. Le norme costituzionali e le direttive comunitarie, al pari del diritto interno, valgono -al pari della legge- su tutto il territorio nazionale, a Gorizia ( al CIE di Gradisca di Isonzo), o a Milano, come a Trapani ( al CIE Vulpitta), e la loro applicazione deve essere uniforme, per non risultare abusiva e discriminatoria. La normativa vigente deve essere applicata senza attendere che gli interessati presentino (quando riescano ad avere una difesa effettiva) ricorsi all’autorità giudiziaria, e questo comportamento della P.A. appare dovuto per evitare violazioni dei diritti fondamentali della persona, ed in particolare dei diritti di libertà, presidiati dall’art.13 della Costituzione, che pone limiti precisi per la convalida giurisdizionale delle misure restrittive adottate dall’autorità di polizia.
5. Una recente circolare del ministero dell’interno, firmata il 17 dicembre del 2010 dal Capo della polizia Manganelli, chiarisce, allo scopo dichiarato di evitare lunghe fasi di contenzioso, la interpretazione che le Prefetture e le Questure dovranno adottare nei provvedimenti di rimpatrio di loro competenza, dopo la scadenza del 24 dicembre termine ultimo per la implementazione legislativa della Direttiva 2008/115/CE in Italia .
La circolare riconosce la efficacia precettiva immediata della direttiva, in assenza della attuazione nell’ordinamento interno da parte delle autorità statali competenti ( governo e Parlamento)e stabilisce criteri che dovrebbero essere applicati in maniera uniforme dalle Prefetture e dalle Questure italiane. Si prende atto dell’inadempienza del governo italiano e dello scarto che si è determinato per questa ragione tra il diritto comunitario ed il diritto interno. Secondo la circolare, che si riferisce ai “Cittadini stranieri in posizione di soggiorno irregolare”… “nelle more del recepimento, da parte dell’Italia, della Direttiva in questione, occorre considerare che”:
decorso il termine del prossimo 24 dicembre, lo straniero attinto da un provvedimento finalizzato al suo rimpatrio potrebbe impugnarlo e chiedere, alla competente autorità giudiziaria, di eccepirne la difformità rispetto ai contenuti della normativa comunitaria;
il ricorso dello straniero potrebbe essere accolto poiché il giudice, in applicazione dei principi di diritto comunitario, e’ obbligato ad interpretare il diritto interno alla luce della lettera e dello scopo della Direttiva
In previsione di tale situazione, il Ministero dell’interno avverte Prefetti e Questori che “ assumeranno una rilevanza strategica le motivazioni su cui si fonderanno i provvedimenti propedeutici al rimpatrio che codesti Uffici proporranno per l’adozione alle competenti Prefetture o adotteranno direttamente; in particolare “tali motivazioni, per essere idonee a neutralizzare gli effetti del ricorso, dovranno essere articolate, in modo che emerga con chiarezza la conformità dell’azione di rimpatrio rispetto ai contenuti della normativa comunitaria”.
Si prende in sostanza atto, anche da parte del Ministero come,”a differenza del novellato e tuttora vigente decreto legislativo n. 286 del 1998, che si fonda sull’immediata ed automatica espulsione dello straniero che soggiorna illegalmente sul territorio nazionale, la Direttiva n. 115 del 2008 introduce un meccanismo espulsivo “ad intensità graduale crescente”. Secondo la circolare “infatti, il legislatore comunitario ha previsto che sia privilegiata la partenza volontaria dello straniero rispetto al suo rimpatrio coatto, purché non sussista il rischio di pregiudicare l’effettivo ritorno dello straniero nel suo Paese di origine o in un altro Paese. In presenza di tale rischio o di altre situazioni, il rimpatrio potrà essere immediato, quindi con l’accompagnamento coatto alla frontiera, senza che sia concesso allo straniero il termine per la partenza volontaria. La circolare ministeriale richiama come la Direttiva preveda che “ gli Stati membri mettano fine al soggiorno irregolare dello straniero attraverso una procedura equa e trasparente, con decisioni da adottare caso per caso, sulla base di criteri obiettivi e senza limitarsi a considerare il semplice fatto del soggiorno irregolare”.
Oltre al preventivo espletamento del tentativo di rimpatrio volontario si impone anche una riconsiderazione della detenzione amministrativa nei centri di identificazione ed espulsione, in quanto secondo la stessa circolare “l’uso di misure coercitive andrebbe subordinato al rispetto dei principi di proporzionalità e di efficacia, per quanto riguarda i mezzi impiegati e gli obiettivi perseguiti. Ai medesimi principi andrebbe ispirato il ricorso alla misura del trattenimento in un Centro, affinché gli stranieri siano trattati in modo umano e dignitoso”. Nulla si aggiunge invece sul diritto di accesso nei centri di detenzione amministrativa, oggi soggetto in Italia a fortissime limitazioni. Secondo l’art. 16 della Direttiva “i pertinenti e competenti organismi ed organizzazioni nazionali, internazionali, e non governativi hanno la possibilità di accedere ai centri di permanenza temporanea( oggi CIE)”. Tali visite possono essere soggette ad autorizzazione.
Il Ministero suggerisce quindi alle Prefetture ed alle Questure destinatarie della circolare del 17 dicembre 2010 una particolare cautela nella formulazione dei provvedimenti di allontanamento forzato in modo che non risultino in contrasto con quanto previsto dalla normativa comunitaria. Infatti “le motivazioni su cui si fonderanno i provvedimenti finalizzati al rimpatrio dello straniero dovranno essere calibrate in relazione alle principali novità introdotte dalla Direttiva. In particolare, si dovrà tenere presente che:la posizione di soggiorno irregolare determina l’adozione di una decisione di rimpatrio; il relativo provvedimento va emesso solo a seguito di una ponderata valutazione del singolo caso. Secondo il ministero dell’interno “in tale contesto andrebbe sempre assicurata la gradualità del provvedimento da adottare, privilegiando la concessione di un termine per la partenza volontaria rispetto al rimpatrio immediato”. Appare invece meno chiara la previsione secondo cui “la stessa gradualità andrebbe garantita nella fase esecutiva del rimpatrio”. La circolare non fa un espresso riferimento alla considerazione dei rapporti familiari della persona da espellere, come richiede invece la Direttiva comunitaria.
Per quanto riguarda la scelta del rimpatrio volontario, in base alla circolare, si dovrà considerare “ la disponibilità di adeguate risorse finanziarie provenienti da fonti lecite idonee allo scopo; il possesso di un documento utile all’espatrio, in corso di validità; l’utilizzabilità di un alloggio stabile non precario, ove lo straniero “possa essere rintracciato senza alcuna difficoltà”; la linearità della sua condotta pregressa; il proprio concreto interesse a tornare quanto prima nel Paese d’origine o in un altro Paese terzo, senza più prolungare la permanenza irregolare sul territorio italiano; ogni altro elemento utile ad evidenziare la presenza o meno del pericolo che egli si sottragga volontariamente al rimpatrio, qualora gli venisse concesso un termine per la partenza volontaria. Si tratta di criteri che consentono ancora un elevato margine discrezionale, ma che impongono quanto meno una considerazione analitica del singolo caso, senza quelle valutazione tipicizzate nei formulari attualmente adottati nelle procedure di allontanamento forzato e di detenzione amministrativa. Rimane anche da verificare come tali adempimenti possano essere tempestivamente assolti dagli uffici competenti, che lamentano da tempo gravi carenze di organico, e soprattutto se non si ritornerà ancora una volta alla utilizzazione di moduli preconfezionati, che servano soltanto a soddisfare sul piano meramente formale quanto richiesto dalla direttiva comunitaria.
Rimane assai vaga anche la previsione -cruciale- del divieto di reingresso, in quanto la circolare si limita ad affermare che la durata di tale divieto “ dovrebbe essere determinata alla luce di tutte le circostanze pertinenti per ciascun caso”, aggiungendosi poi che tale divieto “non supera di norma i 5 anni, salvo che l’interessato costituisca una grave minaccia per l’ordine pubblico, la pubblica sicurezza o la sicurezza nazionale”. Quello che è più grave è la totale assenza di una previsione espressa, che sarebbe consentita dalla Direttiva, di una qualche forma di premialità, consistente nella eliminazione del divieto di rimpatrio nei casi in cui l’immigrato dia esecuzione spontanea all’intimazione di rimpatrio volontario.
Secondo quanto riconosciuto dalla circolare, in applicazione della Direttiva 2008/115/CE, per la partenza volontaria è concesso all’interessato un termine tra i 7 e i 30 giorni. Durante tale periodo, possono essere imposti allo straniero alcuni obblighi finalizzati a evitare il rischio di fuga, come l’obbligo di presentarsi periodicamente alle autorità, la costituzione di una garanzia finanziaria adeguata, la consegna di documenti o l’obbligo di dimorare in un determinato luogo.
La parte più critica della circolare ministeriale del 17 dicembre scorso riguarda i casi di rimpatrio forzato, “quando il termine per la partenza volontaria non è concesso”, e precisamente qualora:
. sussista il rischio di fuga dello straniero, o
. la sua domanda di soggiorno e’ stata respinta in quanto manifestamente infondata o fraudolenta, ovvero
. l’interessato costituisca un pericolo per l’ordine pubblico, la pubblica sicurezza o la sicurezza nazionale;
· il rischio di fuga deve essere accertato individualmente, sulla base di criteri oggettivi;
Nessun cenno nella circolare alla possibilità, prevista dalla Direttiva che gli stati membri documentino la condizione degli stranieri irregolari “ che non è possibile allontanare”, anche al fine di dimostrare la loro “ situazione specifica in caso di verifiche o controlli amministrativi, tali persone dovrebbero essere munite di una conferma scritta della loro situazione”, così il Considerando n.12.
Neppure si richiamano i diritti e le garanzie riconosciuti dalla Direttiva in odine ai mezzi di ricorso previsti dall’art.13, secondo il quale all’immigrato irregolare “ sono concessi mezzi di ricorso effettivo avverso le decisioni concernenti il rimpatrio”, prevedendosi anche che le autorità competenti a giudicare sui ricorsi possano “sospendere temporaneamente l’esecuzione”.
6. La circolare sembrerebbe modificare, in ossequio ai precetti della Direttiva 2008/115/CE ( in particolare all’art.15) la portata della detenzione amministrativa in quanto “il trattenimento dello straniero in un Centro può essere disposto, salvo che nel caso concreto possano essere efficacemente applicate altre misure sufficienti ma meno coercitive, per preparare il rimpatrio e/o effettuare l’allontanamento, in particolare qualora sussista il rischio di fuga, o l’interessato evita od ostacola la preparazione del rimpatrio o l’allontanamento”.
Sul concetto di “rischio di fuga” o sulla circostanza che “l’interessato evita od ostacola la preparazione del rimpatrio o l’allontanamento”, nella stesura dei provvedimenti di allontanamento forzato e di trattenimento, si potrebbe ricorrere a formule che apparentemente tengano conto della posizione individuale dei destinatari dei provvedimenti di rimpatrio, ma che in sostanza riproducono valutazioni stereotipe che tradirebbero quanto richiesto dalla direttiva comunitaria.
Secondo la Direttiva 2008/115/CE inoltre, all’art. 15 comma 4, “quando risulta che non esistano più alcuna prospettiva ragionevole di allontanamento per motivi di ordine giuridico o per altri motivi”, o che non esistano più rischi di fuga o comportamenti dell’interessato contrari al rimpatrio,”il trattenimento non è più giustificato e la persona interessata è immediatamente rilasciata”.
Su questo punto di particolare importanza la circolare ministeriale tace, anche perchè la applicazione della direttiva comunitaria avrebbe richiesto uno stravolgimento salutare dell’art. 14 del Testo unico sull’immigrazione, con un superamento della logica punitiva e di contenimento che la detenzione amministrativa ha assunto in Italia. Sotto questo profilo il nostro paese è ancora inadempiente, e mentre il giudice interno potrà disapplicare le norme in contrasto con il diritto comunitario, si possono attendere ricorsi alla Corte Costituzionale ed alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea.
Appare dunque in corso di modifica – seppure per effetto della circolare che richiama una interpretazione conforme alla direttiva 2009/115/CE – il regime della detenzione amministrativa in quanto: il trattenimento è possibile per preparare il rimpatrio e/o effettuare l’allontanamento, a condizione che non possano essere applicate altre misure sufficienti ma meno coercitive. Pertanto, detta misura potrà essere adottata nei casi attualmente consentiti dalla legislazione nazionale; tuttavia, dalla lettura del provvedimento di trattenimento dovrà emergere che, nel caso concreto, non risulti possibile applicare altre misure meno coercitive, proprio a causa della particolare situazione che caratterizza la posizione dello straniero; dovrà essere idonea a soddisfare la finalità dell’allontanamento, che è da perseguire con tutte le misure necessarie”. E’ questa la parte più oscura della circolare ministeriale perché si pone ai limiti della competenza assegnate all’autorità amministrativa ( e forse anche oltre), in quanto contiene una lettura sostanzialmente abrogante di buona parte dell’attuale articolo 14, che prevede appunto la detenzione amministrativa come misura che accompagna necessariamente tutti i provvedimenti di allontanamento forzato ( con limitate eccezioni in favore di immigrati già regolarmente residenti).
Viene francamente da chiedersi se a questo punto non sia assolutamente urgente una modifica legislativa che segua le indicazioni su questo, e su altri punti assai delicati, fornite dalla direttiva comunitaria, anche per evitare possibili ricorsi alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea, per interventi interpretativi ai sensi dell’art.234 del Trattato, o per l’apertura di una procedura di infrazione a carico dell’Italia a seguito della mancata attuazione della direttiva, questione che non può essere risolta da una circolare ministeriale comunque priva della forza normativa di un atto legislativo.
Appare in ogni caso assai pericoloso, come precedente, che una circolare ministeriale detti una disciplina dei casi di espulsione ed allontanamento forzato, che andrebbero regolamentati con un atto avente la forza ed i caratteri della legge. Le misure restrittive della libertà personale in vista di una successiva espulsione non possono essere determinate esclusivamente dall’autorità amministrativa, ma devono essere espressamente previste dalla legge, che ne deve fissare casi specifici e modalità di applicazione. Non basta certo una direttiva ministeriale o una circolare del capo della polizia a ritenere soddisfatto il requisito della riserva di legge previsto dalla CEDU in materia di limitazione della libertà personale in funzione di un successivo allontanamento dal territorio dello stato.
La Convenzione Europea a salvaguardia dei diritti dell’uomo stabilisce infatti, all’art.5, che “ogni persona ha diritto alla libertà e alla sicurezza. Nessuno può essere privato della libertà, salvo che nei casi seguenti e nei modi prescritti dalla legge:
(omissis) … se si tratta dell’arresto o della detenzione regolari di una persona per impedirle di entrare irregolarmente nel territorio, o di una persona contro la quale è in corso un procedimento d’espulsione o d’estradizione.
7. Alla luce della CEDU, e della stessa Costituzione italiana, si potrebbe rilevare dunque come un intervento di carattere amministrativo, revocabile o modificabile in ogni momento, come appunto una circolare ministeriale, ed in ogni caso esposto al rischio di diverse interpretazione a livello locale, ben difficilmente possa soddisfare quella garanzia propria dello stato di diritto che è offerta dal principio di legalità.
Appare comunque evidente il vero obiettivo della circolare ministeriale del 17 dicembre scorso, nell’accreditare la tesi che l’Italia potrebbe dare attuazione alla direttiva comunitaria con misure di carattere meramente amministrativo, senza ricorrere a modifiche sostanziali della legislazione vigente in materia di espulsione e trattenimento amministrativo. Nella circolare si afferma infatti che “in considerazione della compatibilità della Direttiva 2008/115/CE rispetto alla legislazione nazionale, nelle more del suo recepimento codesti Uffici vorranno adeguatamente motivare i provvedimenti da proporre alle competenti Prefetture per l’adozione o da adottare, in modo tale da far emergere, in caso di contenzioso, che: la posizione dello straniero sia stata oggetto di approfondita valutazione; le decisioni discrezionali (come, ad esempio, la mancata concessione allo straniero del termine per la partenza volontaria, la durata del divieto di ingresso o il suo trattenimento nel CIE) siano corredate da adeguata motivazione e non siano state adottate in virtù di meccanismi automatici di rimpatrio; sia stato osservato il principio introdotto dalla Direttiva, che è quello di effettuare il rimpatrio dello straniero progressivamente, mediante l’adozione di provvedimenti “ad intensità graduale crescente”.
In questa valutazione di “intensità graduale crescente” risiede, a nostro avviso, il rischio di una elevata discrezionalità da parte delle autorità amministrative e dunque di applicazioni difformi sul territorio nazionale, con il rischio di una grave violazione dell’art.3 della Costituzione, a fronte di un diverso esercizio di poteri tanto ampi conferiti all’autorità amministrativa in assenza di un preciso dettato normativo.
Se la circolare emanata dal Capo della polizia il 17 dicembre 2010 troverà effettiva applicazione, questa non potrà che comportare la disapplicazione generalizzata dell’art. 13 comma 4 del T.U. 286 sull’immigrazione, che prevede come modalità “normale” dei provvedimenti di espulsione l’accompagnamento forzato in frontiera. E su questo punto, sulla costituzionalità della norma in questione, dovrebbe pronunciarsi al più presto la Corte Costituzionale, dopo la sbrigativa risposta fornita, prima della scadenza del termine di attuazione, sulla costituzionalità del reato di immigrazione clandestina con riferimento ai profili di possibile contrasto con la Direttiva 2008/115/CE.
La Costituzione italiana stabilisce che la condizione giuridica dello straniero sia regolata dalla legge ( art. 10) e che le misure limitative della libertà personale rispettino la riserva assoluta di legge e la riserva di giurisdizione ( art.13), restando comunque soggetti al controllo giurisdizionale, secondo la giurisprudenza prevalente, tutti i provvedimenti limitativi della libertà personale, e della stessa libertà di circolazione, quando queste limitazioni siano finalizzate all’allontanamento del cittadino straniero irregolarmente soggiornante sul territorio italiano.
Gli articoli 11 e 117 della Costituzione impongono poi al giudice interno il rispetto del diritto sovranazionale di natura cogente e gli consentono un ricorso alla Corte Costituzionale in presenza di norme interne che risultino in contrasto con questo. Lo stesso giudice nazionale potrà disapplicare il diritto interno che risulti in contrasto con quanto previsto da una direttiva comunitaria dotata di effetto cogente per effetto della mancata attuazione, quando la sua formulazione, come riconosciuto anche dalla circolare ministeriale, sia sufficientemente preciso e circostanziato. Anche se la circolare costituisce una prima apertura verso una applicazione diretta della normativa comunitaria in materia di rimpatrio degli stranieri irregolari, non riteniamo tuttavia che, in una materia tanto delicata, le direttive comunitarie si possano “attuare” con circolari amministrative, e di questo sembra peraltro consapevole anche l’estensore della circolare del ministero dell’interno adottata il 17 dicembre scorso, una settimana prima della scadenza del termine di attuazione della direttiva 2008/115/CE sui rimpatri.
Se si intende veramente rispettare i principi dello stato di diritto anche per gli immigrati irregolari – a differenza di quanto finora avvenuto in Italia- si dovrà garantire una normativa interna che stabilisca limiti più netti alla discrezionalità amministrativa, in materie tanto delicate da riguardare la libertà, e spesso anche la vita delle persone. Sono anche gli ultimi interventi della Corte Costituzionale che impongono una modifica immediata degli articoli 13 e 14 del Testo Unico sull’immigrazione, in modo da rendere coerente la disciplina delle espulsioni e della detenzione amministrativa con i principi affermati nella Costituzione e nelle normative di fonte comunitaria. Dopo la scadenza del termine di attuazione, ma la stessa considerazione avrebbe dovuto valere anche prima, l’intero regime dei centri di detenzione amministrativa dettato dall’art. 14 del T.U. n.286 del 1998, come modificato dalla legge Bossi-Fini nel 2002 e poi, a più riprese, dai diversi pacchetti sicurezza, si trova in insanabile contrasto con le previsioni costituzionali e con quanto previsto a livello comunitario. La direttiva comunitaria non consente ad esempio che il trattenimento in un CIE possa essere applicato in modo generalizzato, in tutti i casi nei quali si riscontrino difficoltà nell’accertamento dell’identità, oppure nell’approntamento della documentazione relativa, il cd documento di viaggio, malgrado lo stesso migrante sia disponibile al rimpatrio volontario. Ed anche i presupposti da verificare in sede di convalida giurisdizionale del rinnovo del trattenimento, dopo i primi 60 giorni, appaiono notevolmente divergenti, con questioni che non possono essere risolte con una circolare, richiedendo urgenti modifiche legislative. In ogni caso, secondo la Direttiva 2008/115/CE il trattenimento in un CIE sarà possibile non in ogni caso di allontanamento forzato, ma solo quando non siano applicabili “altre misure coercitive”, se vi sia rischio di fuga, o se lo straniero “ostacola” le procedure di riconoscimento.
8. Resta adesso da verificare con quali tempi e contenuti il legislatore italiano darà finalmente attuazione nell’ordinamento interno alla direttiva 2008/115/CE, e se da un ulteriore ritardo possano derivare danni di natura morale e patrimoniale a carico degli immigrati destinatari dei provvedimenti di rimpatrio. Di certo sarà necessario bloccare la proliferazione di norme di carattere penale che sanzionano qualunque irregolarità di tipo amministrativo nella quale possano incorrere gli immigrati, creando una sorta di “diritto penale speciale” o “d’autore”, del tutto privo di una effettiva applicabilità, ma di grande utilità dal punto di vista elettorale, come è generalmente riconosciuto. E nella stessa direzione occorre porre termine alla moltiplicazione dei centri di identificazione ed espulsione, la cui funzione, come strumento rispetto alla effettiva esecuzione dei provvedimenti di espulsione, viene fortemente ridimensionata anche dalla direttiva comunitaria. Il legislatore italiano, nell’esercizio dei suoi ampi poteri discrezionali, riconosciuti di recente dalla Corte Costituzionale, dovrebbe garantire il rispetto dei canoni di adeguatezza, proporzionalità ed effettività delle misure di allontanamento forzato dei cd. irregolari, misure che possono incidere pesantemente su un ampio spettro di diritti fondamentali comunque riconosciuti agli immigrati, quale che sia la loro condizione di soggiorno, sia dalle Convenzioni internazionali che dalla nostra Costituzione.. In questa direzione, ben al di là della circolare ministeriale del 17 dicembre scorso, la Direttiva comunitaria 2008/115/CE impone ancora obblighi attuativi e limiti precisi sia al Governo che al Parlamento
Rimane in conclusione una amara considerazione sullo stato della democrazia nel nostro paese, se oggi ci troviamo costretti a rintuzzare una circolare ministeriale che si sforza addirittura di neutralizzare un possibile contenzioso, e dunque i diritti di difesa, la riserva di giurisdizione e la stessa riserva di legge, in ordine alla condizione giuridica degli stranieri. Un contenzioso che sicuramente non mancherà, anche se derivante dalla inattuazione di una direttiva comunitaria che, al tempo della sua emanazione, dopo accesi scontri tra le diverse istituzioni comunitarie, venne definita la “direttiva della vergogna”.
Circolare del Ministero dell’Interno del 17 dicembre 2010
Direttiva 2008/115/CE del Parlamento e del Consiglio, del 16 dicembre 2008
Per ulteriori approfondimenti si rinvia a P. Bonetti, La proroga del trattenimento e i reati di ingresso e permanenza irregolare nel sistema del diritto degli stranieri: profili costituzionali e rapporti con la Direttiva comunitaria sui rimpatri, in Diritto, Immigrazione e Cittadinanza, 2009,4, p. 85 M. Borraccetti, Il rimpatrio di cittadini irregolari: armonizzazione (blanda) con attenzione (scarsa) ai diritti delle persone, in Diritto, Immigrazione e Cittadinanza, 2010,1, p.17 A. Puggiotto, I meccanismi di allontanamento dello straniero, tra politica del diritto e diritti violati, in Diritto, Immigrazione e Cittadinanza, 2010,1, p.42 F. Viganò, Diritto penale ed immigrazione: qualche riflessione sui limiti della discrezionalità del legislatore, in Diritto, Immigrazione e Cittadinanza, 2010,3, p.13 L. Masera, Costituzionale il reato di clandestinità, incostituzionale l’aggravante: le ragioni della Corte Costituzionale, in Diritto, Immigrazione e Cittadinanza, 2010,3, p.37