Pubblicato su Repubblica
ROMA – I rifugiati dell`ex ambasciata somala non sono profughi in attesa di assistenza, fra loro ci sono lavoratori sfruttati, costretti al lavoro nero e addirittura non pagati da chi ne affitta le braccia alla giornata. Alle porte della capitale o nelle campagne del Sud il destino dei giovani africani è comune. Sia che provengano dai paesi subsahariani, sia che fuggano dalla guerra civile della Somalia. Questa volta ad approfittare della loro debolezza sono alcune aziende dell`hinterland romano. La prova è Hassan, uno dei 140 uomini titolari di protezione internazionale che occupano lo stabile di via dei Villini 9. Hassan ha fatto un elenco certosino delle giornate lavorative di novembre e dicembre per le quali non è stato pagato. Lo conserva nel portafoglio e lo mostra per denunciare la sua situazione: “dicono che i soldi non ci sono, così il 15 dicembre ho smesso di andarci”.
Venti euro per otto ore di lavoro. Aspetta di ricevere i suoi 20 euro al giorno per otto ore di lavoro passate a scaricare e caricare camion. Ha telefonato tante volte all`azienda, ma non ha ottenuto risposte e garanzie sui tempi. La mattina la sveglia suona alle 4.20, poi raggiunge la stazione Termini, prende la metropolitana fino alla fermata Laurentina e poi un autobus del Cotral che lo porta fino a Pomezia. “Lavoro lì da giugno, per circa 15 giorni al mese”, racconta. Con lui sono impegati altri sette stranieri e nessuno ha avuto lo stipendio. Non è un caso isolato.
Rifugiati su Facebook. Anche Abdul, un altro dei ragazzi somali, ha provato a ricostruirsi una vita e un impiego fuori dal cancello dell`ex ambasciata. Ma non è riuscito a superare la soglia di retribuzione dei 20 euro. Nonostante abbia i documenti in regola, il codice fiscale, la tessera sanitaria e la carta d`identità. Così ha deciso di iscriversi alla biblioteca comunale del quartiere per avere accesso a internet per due ore al giorno. “Mi informo su quello che succede in Somalia e ho un profilo Facebook – dice – così rimango in contatto con amici e familiari”. Tra i somali c`è chi ha fatto il bracciante in Sicilia, a Comiso, impiegato nella raccolta dei pomodori. Ma alla fine non si sopravvive e si ritorna nel rifugio dell`ex sede diplomatica, tra il rischio di epidemie, senza luce, acqua, né gas. Le vecchie stanze, un tempo uffici, ora sono dormitori con i letti e le coperte ammassate in cui si fanno i turni per riposare, perché non c`è posto per tutti. Il fuoco per cucinare viene acceso con l`alcol. I somali abitano in un edificio che cade a pezzi ed è lo spettro di quello che fu la loro ambasciata.
Vergogna internazionale. Molti di loro hanno i nonni che parlano italiano e a casa le loro famiglie sono preoccupate. “In questi giorni ci hanno visti su Al Jazeera e temono per le nostre condizioni” dice Abdul Gadir, minorenne, orfano di padre e già passato dall`Olanda. Per questo i rifugiati somali non amano le telecamere, non vogliono che i loro cari in Somalia li vedano su internet o sui canali satellitari, costretti a vivere come animali. Dopo l`emergenza Lampedusa, è stato portato nel Cara (Centro di Accoglienza per Richiedenti Asilo) di Sant`Angelo di Brolo, nel messinese. Un centro inaugurato e poi chiuso tra le proteste dei cittadini, preoccupati per la sicurezza del piccolo comune. Mohamud era tra i cento profughi somali che a gennaio 2009 dormivano nell`atrio della stazione ferroviaria di Messina, in attesa del titolo di viaggio dalla questura. Documento necessario per spostarsi e cercare fortuna altrove.
Ospiti dei Rom. In quell`occasione, alcuni profughi somali furono ospitati per alcune notti dai Rom, che gli aprirono le porte del campo nomadi vicino alla stazione. La sua storia mostra l`odissea dei rifugiati in Italia, senza tutele e scacciati ovunque. Per questo, alcuni di loro hanno fatto un disegno su un telo e lo hanno appeso sopra una brandina in una stanza al terzo piano del tugurio in cui dormono. C`è una barca con lo scafista piena di somali in mezzo al mare. E` il Titanic. Naufraghi anche sulla terra ferma.