Chi ricorderà Ioan, il bracciante rumeno unico testimone della strage di Filandari? Probabilmente nessuno. Dopo gli omicidi del 27 dicembre, quando un padre e i suoi quattro figli sono stati sterminati dalla famiglia rivale, tutti hanno provato a cercare le cause di quanto avvenuto nel Sud barbarico o nel Nord coloniale. Tanti calabresi rispondono ancora col vittimismo, ignorando un problema che va molto oltre la questione criminale.
Eppure la via d’uscita è lì, a pochi passi. Ma ancora per poco. Nonostante le attrattive siano davvero poche, in Calabria come in molte zone del Sud sono ancora presenti lavoratori dell’Est come braccianti africani. Impegnati nel lavoro stagionale o presenti stabilmente, vivono di lavoro domestico o in campagne pressoché spopolate di contadini italiani ma piene di falsi braccianti. Non sono molti, e sarebbero ancora di meno senza la crisi del Nord e il pesantissimo clima creato dalla Lega e dall’ossessione securitaria. Ma hanno un’altra mentalità, che oggi rappresenta un’imperdibile occasione per il Sud. Un’iniezione di “diversità” che può annientare la barbarie.
Ioan ha un fratello. Non in senso letterale, ovviamente. Si tratta del ragazzo ghanese sopravvisuto alla strage del 18 settembre 2008, a Castel Volturno, quando un commando di sette killer uccise sei africani sotto una pioggia di piombo. Solo la sua testimonianza ha permesso di fermare un gruppo di fuoco di un’ala dei casalesi impegnata in una scellerata strategia stragista. Tanti sarebbero rimasti sull’asfalto, tanti italiani salvati da un africano che però nessuno ha mai ringraziato.
Non prendiamoci in giro. Nessun calabrese o campano avrebbe mai fatto quello che hanno fatto il ragazzo rumeno e il ghanese. Tutte le inchieste di Rosarno sullo sfruttamento (ottobre 2008, maggio 2009, febbraio 2010) sono nate o sono state rese possibili dalla collaborazione dei cittadini stranieri. Gli africani di Rosarno non hanno mai esitato, quando hanno avuto la possibilità di entrare in una caserma e descrivere gli aguzzini capaci di aggredire o rapinare lavoratori poverissimi. Gli indiani di Locri hanno fatto arrestare alcuni ‘ndranghetisti che avevano iniziato a vessarli e rapinarli, unendo alla prepotenza del mafioso la cattiveria del razzista.
Cos’è una notizia?
Detto questo, resta da chiedersi perché il terribile fatto di Filandari è diventata una notizia, mentre sono rimaste nell’oscurità tantissime altre terribili storie (un ragazzo ucciso nei pressi di Cinquefrondi per rapinarlo del fucile mentre era a caccia, poche settimane fa; un venticinquenne ammazzato nelle campagne di Delianuova ad appena 48 ore dalla strage: e sono solo due esempi).
Proviamo a fare qualche ipotesi. I giornalisti, prima di scrivere, richiedono un numero adeguato di morti e l’unità di tempo e di spazio. Dunque, lo stillicidio degli omicidi campani e calabresi non sarà mai una notizia. Né il fatto che tanti crimini avvengono per motivi meno che futili (litigi per un confine o un parcheggio; il desiderio di non passare come “fessi” agli occhi del paese; rapine surreali compiute dai monopolisti internazionali del traffico di stupefacenti).
Poi arriva la colpevolizzazione della vittima. In prima istanza nei luoghi degli omicidi, quasi sembre i paesi. Luoghi lugubri, campagne tristi popolate da anziani che solo gli immigrati sottraggono al destino naturale dello spopolamento. Posti isolati, prima culturalmente che geograficamente. Poi l’opinione pubblica nazionale fa il resto: un calabrese morto ammazzato non è una vittima innocente. Avrà fatto qualcosa. Meglio pensare che si ammazzano tra loro. Il meccanismo è spietato, spegne l’indignazione e cancella la memoria. Fino alla prossima strage.