La sede Ikea di Catania aprirà solo nella prossima primavera, ma sono già giunti all’azienda svedese circa 47 mila curricula che concorreranno all’assegnazione di soli 247 posti. L’impianto assicurerà un ulteriore misero indotto di un centinaio di persone per attività di pulizia e simili. La notizia è nota da tempo, ma da mesi tutti i commentatori stanno semplicemente commiserando la realtà del Sud, attanagliata dalla fame e abbagliata da pochi posti di lavoro.
In realtà, se si analizza la modalità di partecipazione, il dato si ridemensiona molto. Basta compilare un form su Internet e cliccare su “Invia”, non occorre andare alla posta o pagare marche da bollo. E’ gratis e non ci si sposta. L’uso delle comunicazioni via web è ormai un fenomeno di massa: in una città come Catania persino gli “spettatori” delle corse clandestine di cavalli inseriscono i video dei loro “campioni” su YouTube. Girare un filmato col telefonino, montarlo con un software apposito e caricarlo su un server potrebbero sembrare “competenze avanzate”. Fino a qualche tempo fa, venivano attribuite a una figura sociale altamente istruita, di età media o medio-alta, con reddito elevato. L’esatto contrario dei ragazzetti di Librino, non ricchi e per nulla scolarizzati.
In secondo luogo, è sbagliato pensare che i 47 mila siano tutti poveri e disoccupati. Non siamo in una città depressa, ma in un territorio ricco di imprese piccole e grandi, dotato del terzo aeroporto italiano per traffico passeggeri, oltre che iperattiva, di giorno e di notte. E’ probabile che molti dei candidati all’Ikea abbiano già un posto di lavoro. Che è una cosa diversa da un lavoro.
Nell’assunzione in un’azienda scandinava non cercano denaro, ma le regole del nord. O, meglio, quelli che immaginano come comportamenti da uomini del nord. Il nord dell’Europa, chiaramente, non quello dei padani che hanno dimostrato di sapersi adattare al costume locale con abilità da camaleonte. In altre parole, una normale azienda catanese assume in nero, gli orari sono più che flessibili, le ferie un’elargizione variabile, all’arrivo si firmano le dimissioni in bianco, la busta paga dice 1000 e il denaro che ti consegnano è 500 e così via.
Le regolarizzazioni del rapporto di lavoro avvengono dopo ispezioni (molto rare) o quando ci sono fondi pubblici da incassare. La gestione aziendale è frutto più dell’umore del “principale” che di criteri oggettivi. La compressione del costo del lavoro non è tanto una esigenza economica, quanto una missione della vita. Le umiliazioni sono frequenti e facilitate dal ricatto del licenziamento. Non di rado, i procedimenti giudiziari intentanti dai lavoratori arrivano a ipotizzare il grave reato di “estorsione” (ti sottraggo del denaro dietro minaccia). Non dimentichiamo che fin qui abbiamo parlato di imprenditori “onesti”. Se poi passiamo a quelli mafiosi o della ‘zona grigia’ la situazione peggiora ancora. Le rivendicazioni sindacali devono tenere conto di una controparte armata.
Di tutto questo i lavoratori di Catania sono stanchi. Non a torto, attribuiscono questi comportamenti all’imprenditore del Sud, cresciuto tra assistenzialismo e darwinismo sociale. Di riflesso, immaginano che un’azienda scandinava non faccia queste cose. Quel fiume di curricula idealmente indirizzati verso Stoccolma sono un indicatore inequivocabile della voglia di nord che c’è sotto l’Etna.
Nessuno sembra averlo capito. Concita De Gregorio, in un editoriale su l’Unità, associa l’apertura di Catania al processo intentato a Stoccolma contro il fondatore di Wikileaks, deduce brillantemente che sempre di Svezia si tratta e conclude che questi nordeuropei iniziano a deluderci. In Sicilia, infatti, sarà applicata una rigida organizzazione aziendale. Quello che per gli intellettuali di sinistra è un problema, per una lavoratrice catanese che vede la maternità come un incubo (sicuramente sarà licenziata) è quasi un sogno irrealizzabile. Regole dure, ma regole. Una “non scelta”, ma dettata da anni di assenza di politiche per il Sud. Dal ’92 in poi, infatti, è diventata centrale solo la fantomatica “questione settentrionale” propugnata dalla Lega.
Con i 47 mila curricula muore definitivamente (era già in coma irreversibile) l’ultima versione del meridionalismo, quella basata su “sviluppo locale” e “pensiero meridiano”. A Misterbianco, periferia catanese, fu avviato il modello a base di megastore e centri commerciali. Il primo polo del Meridione a scegliere questa strada. I lavoratori degli eleganti negozi di via Etnea o quelli dei parchi commerciali che circondano la città, non sono mai entrati nei sonnacchiosi corridoi universitari.
Chiedono in prima istanza una busta paga “sincera”, in particolare le nuove generazioni cresciute frequentando le scuole che insegnano la “legalità”, mentre poco oltre domina un mondo di cialtroni, truffatori e sfruttatori.
Non hanno mai sentito parlare della necessità di valorizzare le caratteristiche “endogene” del Sud, per forza di cosa positive, facendo nascere da queste uno sviluppo autocentrato. Un modello assolutamente conservatore, che smetteva di considerare il quadro generale o lo considerava immutabile. Ignorano le teorie di professori che hanno provato a trasformare il clientelismo nell’economia del dono, il familismo amorale in reti di solidarietà, l’assenza di modernità in una straordinaria fortuna. E che hanno affrontato il tema della criminalità organizzata in maniera innovativa e definitiva. Ignorandolo.