Un’automobile carbonizzata giace davanti ai cancelli di un edificio dell’ex-Opera Sila. È alle porte di questa vecchia fabbrica di trasformazione delle olive che si scorgono le ultime tracce della «rivolta di Rosarno». Lo scorso 7 gennaio, la località agricola calabrese di 16.000 abitanti si trasformò nel teatro di una rivolta dopo che il giovane bracciante togolese Ayiva Saibou venne ferito con colpi di arma da fuoco.
Saibou stava rientrando dagli aranceti in cui 900 lavoratori vivevano ammassati in condizioni sanitarie allarmanti. Uno di questi immigrati ricorda: «E’ stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso, e ci siamo ribellati. Ma una parte della popolazione si è rivoltata contro di noi e ci ha attaccato». La violenza dello scontro, nel corso del quale i protagonisti si affrontarono a colpi di bastone, spranga e bottiglie molotov, travolse lo stato, che, il 10 gennaio, procedette con l’evacuazione d’urgenza di oltre 700 immigrati, spostati su pullman verso le città di Crotone e Bari (1).
Dal momento che la situazione economica e le condizioni di vita dei cittadini extracomunitari pongono problemi dalla fine degli anni ’90, perché gli avvenimenti di Rosarno si sono scatenati nel 2010? La stampa italiana e internazionale ha colto in tale furore collettivo soltanto una reazione xenofoba. «Rivolte razziste»; «caccia all’immigrato». Il quotidiano britannico The Guardian ha descritto l’Italia come «un paese unito dal razzismo» (10 gennaio 2010). Basta questo argomento per spiegare una tale esplosione?
A un primo sguardo, la situazione di Rosarno non è diversa da quella di altre zone ad agricoltura intensiva – in particolare l’Andalusia (2). Circa 1.600 aziende agricole grandi mediamente 1,8 ettari formano il tessuto rurale della zona. Giuliana Paciola, dell’Istituto nazionale di economia agraria, spiega che, dentro questo modello agricolo, «la presenza di lavoratori stagionali è un fattore strutturale. In Calabria, il 95 % di essi è assunto irregolarmente».
Oltre 10.500 lavoratori ghanesi, senegalesi, ivoriani, nigeriani e maliani, con o senza documenti – e altri provenienti da paesi dell’est recentemente entrati nell’Unione europea – hanno lavorato in Calabria nel 2009. Nel 1989 erano 800. Nel corso del solo 2009, il loro numero è aumentato del 30%. Questi immigrati, spesso clandestini, privi di contratto di lavoro, pagati all’incirca 20-25 euro al giorno – cioè la metà di quanto percepito da un bracciante regolare italiano – o 1 euro per cassetta d’arance, lavorano dall’alba al tramonto. Il caporale, che li assume a giornata, trattiene una parte dei loro guadagni. Egli, nel suo ruolo di intermediario tra il proprietario terriero e l’operaio agricolo, si pone al centro di un sistema di reclutamento largamente influenzato dalla criminalità organizzata a cui è spesso legato, in particolare nei grandi terreni che impiegano una quota significativa di braccianti africani.
A partire dal 2008-2009, mentre si assisteva alla concentrazione nella piana di Gioia Tauro di una manodopera sempre più numerosa e sfruttata in particolare dalla ’ndrangheta, la filiera degli agrumi entrava in profonda crisi. Antonino Inuso, presidente della Confederazione italiana degli agricoltori (Cia) della provincia di Reggio Calabria, ci spiega che «la caduta costante del prezzo delle arance industriali utilizzate per la loro trasformazione in succo – la parte fondamentale della produzione della piana – è stata vertiginosa, scendendo fino a cinque centesimi al chilo. Solo nel secondo semestre del 2009, il reddito medio degli agricoltori della zona è diminuito del 25%».
Le arance venute dal Brasile
Calo dei prezzi mondiali, forte concorrenza delle arance straniere (soprattutto di quelle provenienti dal Brasile), fine del prezzo garantito dalla Politica agricola comune (Pac): tutti questi fattori hanno contribuito alla riduzione della redditività della coltivazione di agrumi. Per Giuseppe Mangone, presidente regionale della Cia, in Calabria circa 4.000 ettari di terreno adibiti a questo tipo di coltura (su un totale di 32.000) sono minacciati. Inuso, imbarazzato, confessa che «gli agricoltori onesti della piana hanno difficoltà a pagare anche i salari dei braccianti».
Domenico Bagnato, «commissario straordinario» di Rosarno, uomo dai modi affabili e con la sigaretta in mano, ci riceve comodamente seduto… sulla poltrona del sindaco. L’autorità comunale non è esistita a Rosarno dal 10 dicembre 2008. In quella data, il consiglio comunale venne sciolto, in virtù della legge antimafia, per un periodo di diciotto mesi. Una dozzina di altre località ha conosciuto la stessa sorte (3). Il commissario di Rosarno spiega che «noi siamo stati nominati qui una volta provato che l’attività amministrativa cittadina era subalterna alle organizzazioni criminali.»
Elezione di sindaci e consiglieri comunali amici, controllo dell’amministrazione e delle società di gestione dei servizi… molte pratiche della ’ndrangheta appartengono a un’antica tradizione. L’organizzazione criminale calabrese, nell’ambito della coltivazione degli agrumi, impone ai produttori il suo prezzo di vendita e controlla il settore della trasformazione, del trasporto e della commercializzazione. Tutta la filiera è corrotta dal monopolio mafioso. Domenico Bagnato afferma che «un chilo di arance da tavola è venduto dal coltivatore al commerciante al prezzo di 50 centesimi. Questo prezzo è imposto dalla mafia, che controlla la distribuzione e il mercato. Nessun agricoltore proverà a vendere i suoi prodotti a un altro prezzo. È così. In questa cifra, 8 centesimi sono rappresentati dal costo del lavoro – 4 centesimi, se quest’ultimo è in nero… All’altro capo della filiera, lo stesso chilo può essere rivenduto al supermercato a un prezzo compreso tra i 2 e i 2,50 euro».
Non è tutto. Giuseppe Creazzo, veterano della lotta antimafia e procuratore della Repubblica del tribunale di Palmi – la cui giurisdizione si estende sul territorio della piana di Gioia Tauro – elenca i metodi che permettono alla ‘ndrangheta di impossessarsi di fondi pubblici – regionali, nazionali ed… europei. Creazzo ci spiega tranquillamente che «nel settore agricolo, in particolare nell’oleicoltura e nell’agrumicoltura, l’accaparramento delle terre consente di misurare l’appetito dei clan. Acquistare fondi e farli coltivare permette di “ripulire” i propri capitali, ma anche di ottenere finanziamenti pubblici, in primo luogo dall’Unione europea». Un’attività decisamente remunerativa. Nel 2007, le autorità italiane hanno scoperto in Calabria 451 casi di frode (ai fondi europei e a quelli pubblici statali) per un ammontare di 125 milioni di euro (4).
Due anni fa, l’Unione ha modificato i criteri di attribuzione dei suoi finanziamenti al fine di privilegiare i redditi degli agricoltori piuttosto che il rendimento dei terreni. La superficie e il numero di alberi di arancio di un terreno hanno soppiantato la quantità di arance prodotte. Secondo Giuliana Paciola, «questo dato ha modificato il sistema economico e sociale di Rosarno. Un ettaro coltivato può dare circa 250 quintali di agrumi. Prima dell’1 gennaio 2008, l’Unione europea dava un contributo di 10 euro a quintale. Un terreno medio di un ettaro poteva quindi ricevere approssimativamente 2.500 euro – e molto di più in caso di frode… Dal gennaio 2008 in poi, ogni fondo riceve una cifra compresa tra gli 800 e i 1.200 euro, ma ora senza la possibilità di imbrogliare!». Una parte della manodopera recentemente assunta diventa dunque eccedente.
In Calabria, un operaio agricolo che ha svolto cinquantun giorni di lavoro regolare nel corso di una stagione – cinque giorni in caso di catastrofe naturale – beneficia di un’indennità di disoccupazione per il resto dell’anno. Anche questo meccanismo è stato manipolato dalla criminalità organizzata e da una parte dei piccoli proprietari terrieri: essi fanno risultare lavoratori agricoli coloro che non lo sono (falsi braccianti) e fanno lavorare altre persone al loro posto.
La Calabria, con i suoi 135.000 lavoratori iscritti all’Inps, che versa l’indennità al 75 % di loro (5), vanta il tasso di beneficiari più elevato del paese. Giuliana Paciola precisa che «l’Inps è uscita dal suo letargo e ha rivisto la lista dei beneficiari dei suoi sussidi, dimezzandola nel 2008 e moltiplicando i controlli. Precedentemente era molto vantaggioso raccogliere le arance per percepire gli aiuti comunitari e, allo stesso tempo, dedicarsi ad altre attività pur usufruendo dei fondi dell’Inps.»
Quattro fattori s’incontrano a Roarno
Giuliana Paciola aggiunge che «la crisi economica generale ha spinto verso le regioni del sud un numero significativo di lavoratori migranti con i documenti di soggiorno in regola, ma che avevano perduto il loro lavoro nelle fabbriche del nord, proprio nel momento in cui nella piana di Gioia Tauro il bisogno di manodopera nel settore degli agrumi diminuiva drasticamente». Domenico Bagnato conferma questo dato: «Dopo gli avvenimenti di gennaio, la polizia ha potuto verificare che il 50% dei lavoratori stagionali extracomunitari evacuati era in possesso di un permesso di soggiorno e provenivano dal nord, dove aveva perso il loro impiego. La penuria di lavoro ha spinto questi nomadi stagionali a stabilirsi qui». Così, a partire dal 2008, quattro fattori (parzialmente indipendenti gli uni dagli altri) si sono intrecciati a Rosarno e hanno accresciuto le tensioni economiche e sociali:
- la crisi del settore degli agrumi, che ha ridotto la produzione locale e colpito il reddito degli agricoltori;
- la modifica dei criteri di assegnazione delle sovvenzioni europee, che ha reso l’attività meno attraente per la ‘ndrangheta;
- la decisione dell’Inps di scardinare il sistema di falsificazione del reddito di cui godeva una parte della popolazione;
- e, infine, i primi effetti sul paese della crisi economica internazionale.
Questi differenti elementi – e non soltanto il razzismo – hanno a portato al culmine le tensioni tra i diversi gruppi sociali, in particolare tra i piccoli agricoltori e i lavoratori migranti. Ma la ‘ndrangheta continua a esercitare il proprio controllo sul territorio. E ad accumulare profitto sulle spalle di tutti.
(1) Secondo l’agenzia Ansa, che il 26 aprile 2010 ha diffuso le cifre della prefettura di Reggio Calabria, il bilancio è stato di 53 feriti, tra cui 21 immigrati, 18 agenti delle forze dell’ordine e 14 abitanti della zona.
(2) Si legga Pierre Daum e Aurel, «Per qualche pomodoro in più», Le Monde diplomatique, marzo 2010.
(3) Cfr. Antonello Mangano, Gli africani salveranno l’Italia, Rizzoli, Milano, 2010.
(4) Commissione parlamentare di inchiesta sul fenomeno della criminalità organizzata mafiosa e similare, «Rapporto annuale sulla ’Ndrangheta», 2008, www.camera.it
(5) Cfr. Sergio Rizzo e Gian Antonio Stella, «I cinque martiri e i centomila falsi braccianti», Il Corriere della Sera, Milano, 29 maggio 2010.