Contro il revisionismo sulla rivolta per il capoluogo

Reggio `70. Chi si oppose al `boia chi molla` difese la democrazia

Giuseppe Lavorato
  Gli uomini che capeggiarono la rivolta per Reggio capoluogo, nel `70, avevano in testa un mutamento autoritario del quadro politico nazionale. Chi si oppose, in particolare i comunisti, difese la democrazia. `Nord e Sud uniti nella lotta` rimane uno slogan attuale e valido, a differenza di becere contrapposizioni uguali e contrarie, nel segno della secessione o del vittimismo.
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Sulla rivolta di Reggio Calabria avevo già letto libri e scritti che espongono analisi che, in grande parte, non condivido, ma la lettura dell’intervento di Piero Sansonetti mi ha completamente sbalordito. Il direttore di ‘Calabria Ora’ scrive che la manifestazione dell’ottobre del ’72 fu sbagliatissima perché rispondeva alla logica dell’occupazione militare e aggiunge che la parola d’ordine ‘Nord e Sud uniti nella lotta’ era insensata. Purtroppo, a sinistra, la necessaria riflessione autocritica sugli errori compiuti si accompagna spesso alla dannazione della memoria anche verso comportamenti positivi. Quella manifestazione fu pensata e realizzata per superare precedenti limiti delle lotte nazionali e per porre i problemi del Mezzogiorno al centro della lotta del movimento operaio, per la difesa e lo sviluppo della democrazia italiana.

Lo capirono non solo i ‘boia chi molla’ di Reggio Calabria, ma anche i golpisti nazionali che, per farla fallire, disseminarono di bombe alcune tratte della ferrovia. Lo capirono i comunisti calabresi che per tutta la notte vigilarono sulla linea ferrata e sulla strade calabresi (dove, forse per questa vigilanza, non avvennero attentati) e i compagni delle Omeca e di Reggio Calabria che, quando si accorsero delle preoccupazioni dei dirigenti nazionali, ruppero gli indugi e diedero iniziò al corteo che sfilò sul corso e diede vita all’indimenticabile manifestazione. Quel giorno ‘Nord e Sud uniti nella lotta’ non fu slogan, ma corposa realtà umana e importante pagina della democrazia italiana. Perché lo scontro aveva forti implicazioni nazionali.

Il dottor Vincenzo Macrì, nel lucidissimo intervento pubblicato qualche mese addietro su ‘Calabria Ora’, ha offerto un importante contributo alla comprensione degli avvenimenti che sconvolsero la città calabrese quaranta anni or sono, perché correttamente li ha collocati dentro gli scenari nazionali in cui si svolsero e ha descritto gli intrecci perversi che in essi si saldarono e le deleterie conseguenze, purtroppo, non ancora esaurite. Non si fa racconto (non scomodo la storia) rispettoso dei fatti, circoscrivendo i motivi di quegli eventi politici all’assegnazione del capoluogo e alle vicende calabresi. Sarebbe operazione svilente e riduttiva anche del ruolo e dei sentimenti di tutti i protagonisti, a sinistra ed a destra. Dall’una e dall’altra parte delle forze in campo, ed in particolare tra i comunisti da una parte e i fascisti dall’altra, vi era forte consapevolezza che la posta in palio era molto più alta: era il destino della democrazia italiana.

Quanti difendemmo la sede della federazione del PCI e partecipammo alle iniziative e alle manifestazioni pubbliche, consapevoli dei pericoli cui andavamo incontro, lo facemmo perchè convinti di difendere il nostro partito, la nostra concezione della democrazia e il futuro che volevamo per l’intero Paese. Così come gli uomini che guidarono la rivolta, ne accettavano i relativi rischi perché avevano in testa un mutamento nazionale, autoritario, dell’assetto politico.

Il fallito golpe , programmato per l’8 dicembre del 1970 , e appreso dall’opinione pubblica negli anni successivi, conferma la convinzione che a Reggio Calabria la destra tentò di costruire le basi di massa ai suoi disegni eversivi. Tentativo iniziato già in anni precedenti con le numerose iniziative del comandante Junio Valerio Borghese, e proseguito nei giorni della rivolta, durante i quali tutti i leaders dell’eversione italiana furono attivamente presenti a Reggio Calabria.
I moti di Reggio Calabria furono uno scontro duro, con aspetti di guerra civile, tra una parte politica che, per i suoi fini, utilizzò un forte e vasto risentimento popolare e un’altra parte politica che comprese quanto fosse pericolosa quella strumentalizzazione e, in condizioni di grave inferiorità, quasi di isolamento, seppe difendere i valori della democrazia.

Durante tutto un lungo periodo, mentre Reggio era in mano ai rivoltosi, la federazione del PCI fu l’unica sede politica difesa dai suoi militanti e rimasta aperta ed agibile all’attività democratica ed alla promozione di iniziative pubbliche di rigoroso contrasto all’eversione. I comunisti calabresi devono essere orgogliosi di aver meritato la riconoscenza che Enrico Berlinguer espresse pubblicamente, a conclusione della Conferenza Meridionale del PCI, nel teatro comunale di Reggio Calabria stracolmo di compagni e cittadini.
Certo, nessuno può disconoscere e negare che la grande collera popolare, che si espresse nella rivolta, fu originata da un profondo malessere economico-sociale, che divenne strumento del movimento eversivo anche per colpa di limiti ed errori del PCI e del movimento operaio e democratico. Ma furono limiti ed errori di segno completamente opposto a quelli che ci attribuisce quella parte della sinistra che allora civettò con quel movimento, convinta di poterlo incanalare su obiettivi rivoluzionari. I limiti e gli errori del PCI furono antecedenti allo scoppio dei moti. Nel livello cittadino, furono quelli di un’organizzazione politica che, anche nel giorno del rapporto alla città del sindaco Battaglia, era impelagata nei dissidi interni e senza alcuna antenna su quanto stava maturando nella società reggina. Per il livello nazionale, fu l’incapacità di unire alle lotte operaie e studentesche la costruzione, anche nel Mezzogiorno, di un movimento che avesse connotati di classe, difendesse e conquistasse risultati importanti per i bisogni essenziali del popolo meridionale.

In quella frattura tra conquiste operaie nel nord ed aggravamento del malessere popolare nel sud, si inserì la destra economica parassitaria e quella eversiva. Entrambe lavorarono per aggregare ai loro fini anche le forze sociali meno abbienti. Costruirono il blocco rurale nelle campagne, che fece apparizione nella manifestazione di Gioia Tauro, nella quale i grandi agrari parassitari ed assenteisti riuscirono, con il concorso di una coldiretti strettamente legata alla confagricoltura, a trascinare sulla loro piattaforma anche piccoli proprietari e contadini. Poi , strumentalizzando il risentimento popolare, costruirono a Reggio Calabria il blocco urbano che vide anche la povera gente seguire i percettori e detentori delle più grandi ricchezze e rendite. Fu il tentativo di mettere in campo una nuova vandea da opporre al movimento operaio per impedire che andassero in porto le riforme che colpivano la rendita (la riforma dei patti agrari abnormi e quella sul regime dei suoli), per dare basi di massa al progettato colpo di stato.

Il limite del PCI e della sinistra fu quello di non aver intuito, nonostante le avvisaglie di Battipaglia, Gioia Tauro etc, quanto di pericoloso poteva innescarsi nel Mezzogiorno e, conseguentemente, non aver saputo costruire le opportune iniziative e lotte per indirizzare sul terreno democratico la legittima protesta delle forze sociali sofferenti ed impedire la saldatura di interessi oggettivamente opposti. Ma, una volta scoppiati i moti, con quei connotati di blocco urbano, e con quelle rivendicazioni che invece di unire le classi lavoratrici e popolari calabresi le dividevano ulteriormente, rendendole subalterne ad interessi e propositi pericolosi per la democrazia, il partito comunista ebbe il merito di comprenderne la natura e di organizzare la resistenza, anche se in condizioni di gravissima debolezza. Ricordo molti episodi (e certamente ancor di più ne ricorderanno i compagni che risiedevano a Reggio Calabria ) nei quali i pericoli fisici furono altissimi. Ma non disarmammo e costruimmo anche la controffensiva democratica nel territorio della provincia e della regione.

Non mi suscita alcuno stupore o contrarietà che , nelle ricorrenze dell’anniversario di quegli eventi, la destra reggina promuova manifestazioni, convegni, celebrazioni. Perche` è legittimo ricordare la propria storia, le battaglie e le lotte nelle quali si è creduto. Stupore mi suscita, invece, il fatto che anche parti della sinistra si infilino nelle medesime analisi e celebrazioni. Mentre, invece , legittimo orgoglio dovrebbe suscitare a sinistra il ricordo di aver difeso quarant’anni or sono a Reggio Calabria, in condizioni molto difficili e pericolose, i propri ideali e con essi i valori della libertà e della democrazia. Concludo aggiungendo che dissento ancor di più sull’espressione di Sansonetti che afferma che “il nostro peggior nemico è il nord”e che “la distinzione tra sinistra e destra va messa in secondo piano”. Nulla di nuovo: sono le tesi (speculari a quelli della lega nord) di Noi Sud , Mpa e di altri simili, trasformistici movimenti. A mio avviso, sarebbe veramente insensato pensare di costruire un movimento per il riscatto del Mezzogiorno partendo da queste premesse. Per affrancare le popolazioni oneste e sofferenti del Mezzogiorno dai loro nemici interni ed esterni, non c’è nulla da inventare. E’ valido ancora oggi, anzi oggi più di allora, quanto venne scritto nel Manifesto del 1848.

Il compito che sta di fronte a noi è quello di costruire la sinistra del nostro tempo. Quella di cui hanno bisogno gli emarginati , gli sfruttati del sud e del nord , dell’Italia e del mondo. Per aggregare , nel mondo operaio ed in quello intellettuale, nelle grandi e piccole comunità, i disoccupati, i precari, i giovani costretti a lavorare in nero con paghe dimezzate , gli immigrati, gli operai, i braccianti . Lavorare per unirli in un movimento di lotta, che risplenda di tutti i colori della pelle umana, per scagliarlo contro l’economia canaglia, i poteri dominanti e le mafie.

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