SOVERATO (CZ) – Quando la ‘ndrangheta ridisegna la geografia criminale lo fa con il sangue. La costa jonica catanzarese è diventata “ la zona più calda della Calabria per quanto riguarda gli omicidi” secondo il magistrato Nicola Gratteri. Nel giro di un anno, località turistiche in cui non si sparava un colpo si sono trasformate nel territorio in cui scorazzano killer spietati e in cui ci sono stati così tanti delitti efferati da diventare la zona peggiore d’Italia per l’escalation criminale. L’autunno si lascia alle spalle un’estate di inaudita violenza. Tredici ammazzati dall’inizio dell’anno (oltre 20 dal 2008), tre tentati omicidi, due gambizzati di cui un passante. Tra i feriti anche tre persone che non erano coinvolte, tra cui un bambino di 10 anni con la sola ‘colpa’ di essere accanto al padre quando il sicario lo ha ucciso. Una serie di orfani, alcuni ancora in fasce, e di vedove giovani e giovanissime.
La misura dello scontro non è nel numero dei morti, ma nelle modalità eclatanti scelte per assassinare boss e gregari. Agguati ed esecuzioni avvengono in pieno giorno davanti a decine di testimoni. Il modus operandi è solitamente quello dei sicari che arrivano in moto con il volto coperto dal casco e sparano in mezzo alla folla, su una spiaggia o a una processione davanti al sagrato della chiesa, al bar o per la strada mentre centinaia di persone guardano i fuochi d’artificio per la festa patronale. La profezia del giudice Gratteri è delle più cupe: “Ci saranno ancora decine di morti”. Ma la guerra dimenticata di ‘casa nostra’ non compare sulle pagine dei grandi giornali né sui Tg nazionali e, dunque, non esiste. Le ‘ndrine dispiegano al massimo il loro potenziale di fuoco perché lo scontro in atto per il controllo del territorio ha come posta in gioco il traffico di droga e il mercato della cocaina su un’area così vasta da coprire tre province: Reggio Calabria, Catanzaro e Vibo Valentia.
Sono coinvolte tutte le ‘ndrine che hanno base operativa nella zona jonica da Riace a Catanzaro, passando per la catena montuosa delle Serre. A partire dalla scorsa primavera la mattanza si è concentrata in una fascia territoriale più ristretta, quella del comprensorio di Soverato. Negli ultimi anni, l’establishment locale si è affannato a spacciare “perla dello Jonio” come “una piccola Svizzera non toccata dalla ‘ndrangheta”. Ormai il velo sulle strategie criminali è stato squarciato: con il terrore le ‘ndrine conquistano un’altra grossa fetta di Calabria. Nel silenzio generale anche della politica, si sta consumando l’occupazione militare delle ‘ndrine reggine sulla provincia di Catanzaro mediante l’eliminazione fisica di tutti i boss locali che potessero opporsi a questo disegno. L’azione indisturbata dei commando di morte arriva dopo l’inquinamento dell’economia già in atto da molti anni con le attività di riciclaggio dei proventi del traffico di droga, le estorsioni, il controllo degli appalti. Così funziona l’acquisizione del potere da parte della ‘ndrangheta.
Catanzaro si avvia a diventare terra di mattanza come Reggio Calabria, il soveratese come la locride e la piana di Gioia Tauro. Questa verità fa a pugni con la propaganda del governo sull’antimafia dei fatti. Ma anche con la definizione giornalistica di “faida” con cui è stata bollata dai media. I quotidiani locali parlano da mesi di ‘faida dei boschi’, riferendosi a una vecchia lotta fra clan avvenuta tra la fine degli anni Settanta e i primi anni Novanta nelle aree montane per il controllo dei disboscamenti e del mercato del legname. E’ “una vera guerra di ‘ndrangheta per il controllo dei traffici illeciti e delle attività economiche”, come dicono ora anche gli inquirenti. Una guerra annunciata che si è aperta quando Carmelo Novella fu freddato dai sicari in Lombardia, a San Vittore Olona, il 14 luglio del 2008.
Già allora, sul territorio jonico catanzarese, tradizionalmente feudo della cosca Gallace-Novella di Guardavalle, tutti si aspettavano l’inizio di una stagione terribile. “Si sono rotti gli equilibri, sta cambiando tutto” diceva ovunque la gente al bar e sulla spiaggia, segno inequivocabile della cappa ‘ndranghetista che soffoca intere comunità con attentati e intimidazioni a cui nessuno trova la forza di ribellarsi. Territori in cui la connivenza e l’omertà sono la regola. Ma luoghi solitamente tranquilli dove, fino a un anno fa, regnava la pax mafiosa imposta dagli affari. L’inchiesta “Il Crimine” condotta congiuntamente dalle procure di Reggio Calabria e di Milano ha ricostruito l’omicidio di Novella. I sicari venivano da Guardavalle, l’ultimo paese della provincia di Catanzaro prima della locride. Questo episodio segna evidentemente la rottura fra le famiglie dei Gallace e dei Novella, che insieme costituivano l’omonima ‘ndrina su cui indagarono le maxi inchieste ‘Mithos’ della Dda di Catanzaro e “Appia” della Dda di Roma.
Il clan si era infatti insediato ad Anzio e Nettuno per gestire i traffici di droga dalla Colombia. I Gallace sono stati coinvolti anche nell’inchiesta “Stupor Mundi” che tra il 2003 e il 2004 ha portato a sequestri di droga a Torino, Novara, Roma e Lamezia Terme. Dall’indagine emersero anche i collegamenti e i rapporti sul traffico di droga tra la ‘ndrangheta e Cosa Nostra. L’inchiesta coordinata dai procuratori Ilda Boccassini e Giuseppe Pignatone ha evidenziato che Novella è stato ucciso per le sue idee autonomiste sulla ‘ndrangheta lombarda. A questa idea separatista, o scissionista se vogliamo, si è legato un comportamento speculare anche nella casa base calabrese. Infatti con Novella si erano schierati alcuni boss del soveratese, che volevano sganciarsi dai Gallace, mettendone in discussione il dominio sul territorio. Si tratta dei Sia di Soverato che si sono alleati con i Vallelunga di Serra San Bruno , detti “i viperari”, con i Procopio- Lentini di Davoli e con i potenti Costa di Siderno.
Ai Gallace sarebbero invece rimasti legati i Ruga-Metastasio-Loiero dell’alta locride, che territorialmente sono contigui alla famiglia di Guardavalle. All’origine degli omicidi, dunque, soprattutto il desiderio delle famiglie dello Jonio catanzarese, primi su tutti gli emergenti Sia di Soverato, di mettere le mani sui traffici di droga e sul mercato dello spaccio di cocaina che nella zona è diventato fiorente, come dimostrano diversi arresti per droga. Nella cornice di questo grande riassemblamento del puzzle criminale, ogni piccolo boss ha cercato di ritagliarsi il suo spazio. In molti comuni (parliamo di centri molto piccoli, in media di mille, duemila abitanti) gli uomini della ‘ndrangheta si sono divisi in due fazioni: quelli rimasti fedeli ai Gallace e quelli che puntavano a ‘mettersi in proprio’, fondando un locale di ‘ndrangheta autonomo.
Così sono riesplose anche tutte le rivalità latenti nei singoli comuni, come quella tra i Todaro e i Sia a Soverato. La situazione è deflagrata definitivamente a partire dalla scorsa primavera con una sequenza impressionante di omicidi ravvicinati in ordine di tempo. All’uccisione di un capobastone è seguita immancabilmente la ritorsione, con l’eliminazione dei sicari che avevano fatto parte del commando omicida o degli uomini della cosca avversaria che costituivano un pericolo. Il primo ‘intoccabile’ fatto fuori è stato Damiano Vallelunga, il cui ruolo a capo del clan dei ‘viperari’ di Serra San Bruno era emerso più volte, anche con il coinvolgimento nell’operazione Mithos. E’ stato ucciso esattamente un anno fa a Riace e da questo episodio è nato l’equivoco sulla ‘faida dei boschi’ che si sarebbe riaperta.
I Vallelunga infatti erano stati coinvolti in quello scontro criminale e il fratello Cosimo era stato ammazzato il 17 agosto del 1988 quando la sua famiglia si contrapponeva ad altri clan di Mongiana e Guardavalle. Su quella faida fece luce “L’Operazione faggio” della Direzione distrettuale antimafia di Catanzaro, sulla base delle dichiarazioni del collaboratore di giustizia Pasquale Turrà, capo dell’omonima famiglia. L’uomo aveva svelato gli scenari dietro la sequenza di omicidi, accusando anche alcuni dei suoi stessi fratelli. Fece una fine tremenda a 47 anni. Il suo cadavere fu ritrovato in un dirupo a Elce della Vecchia, una frazione di Guardavalle superiore nell’estate del 1998.
I killer lo avevano prima gambizzato con un fucile caricato a pallettoni e poi gli avevano poggiato la canna dell`arma sul collo, decapitandolo per vendetta. Un anno prima gli era stata revocata la protezione dal ministero dell`Interno, a causa di un allontanamento non autorizzato dalla località protetta dove viveva. In un articolo del 9 luglio di quell’anno, sul Corriere della Sera, il giornalista Carlo Macrì raccontò che “il collaboratore considerato attendibilissimo dai magistrati della Procura distrettuale catanzarese, aveva avanzato alcune richieste al ministero che gli erano state negate. Turra` avrebbe cosi` deciso di allontanarsi, senza informare gli uomini della scorta”.
Richieste “banali”, spiegavano allora i magistrati della Dda di Catanzaro a Macrì con queste parole: “Forse quel diniego e` stato solo un pretesto per mollare Turra`, con la consapevolezza, pero` che la sua fine era stata gia` segnata”. E ancora: “Inquietante il modo con cui si trattano queste persone dopo che ognuno di noi le ha usate e spremute”. Le dichiarazioni di Turrà avevano minato clan feroci, specializzati anche in sequestri di persona. Ma tutto questo appartiene al passato remoto e a una ‘ndrangheta ancora ‘dei boschi’ mentre oggi il grande business si chiama cocaina.