La Piana di Gioia Tauro visse, negli anni `70, una lunga stagione di lotte popolari. Per il rispetto degli impegni occupazionali promessi dal governo. Poi nel ‘75, la posa della prima pietra per la costruzione del porto fu festeggiata insieme da governanti, imprese e ‘ndrangheta. Segno palese di un patto scellerato. Da quel momento alla lotta per il lavoro unimmo quella contro la ‘ndrangheta. Le parole gridate contro di essa erano tanto dirette e chiare da indurre il patriarca mafioso Mommo Piromalli a chiamare il padre del segretario della sezione comunista di Gioia Tauro per dirgli che tutto ciò lo infastidiva. Non ci intimidimmo. In quegli anni la ‘ndrangheta volle compiere il salto politico. Nel voto del 1980, in provincia di Reggio Calabria i capibastone furono tutti in prima fila.
A Rosarno la campagna elettorale fu infuocata. Nei nostri comizi il tema centrale fu la lotta contro i boss mafiosi, per isolarli e sconfiggerli; e politiche di recupero per quei poveri cristi che per qualche futile motivo incappano nei rigori della legge.
Avvertimmo subito partecipazione e consenso. Ma anche la mafia capì, si preoccupò e avviò il suo lavoro sporco. I nostri manifesti, freschi di affissione, furono staccati e capovolti. Ma nelle sere successive continuammo ad affiggerli e proteggerli. Eravamo in 20, 30 e forse più. Di notte (a 16 giorni dal voto) incendiarono la mia macchina e diedero fuoco alla sezione. Rispondemmo con una manifestazione pubblica nella piazza centrale. Parlarono il deputato Monteleone, il segretario della federazione Fantò e il segretario della sezione Peppe Valarioti che disse queste testuali parole: “Se vogliono intimidirci si sbagliano. I comunisti non si piegheranno mai.”
Nelle sere successive svolgemmo molti comizi nei quartieri popolari, per dare coraggio a tanta gente che vive in case che stanno a fianco di quelle dei boss. Ma anche la mafia moltiplico` il suo impegno. Come denunciarono Tarsitano e Martorelli, Giuseppe Pesce prolungò il permesso di restare a Rosarno fino ai giorni del voto, fu visto aggirarsi nei pressi dei seggi e fu ascoltato affermare che, se avesse voluto, sarebbe entrato anche dentro i seggi. Il risultato elettorale fu per noi esaltante. Sconfiggemmo la prepotenza mafiosa. All’imbrunire portammo la buona novella nei quartieri popolari accolti dai sorrisi e dagli abbracci della gente onesta.
Poi con alcuni compagni andammo a cena. Eravamo felici. Terminata la cena, nel cortile della trattoria la lupara mafiosa colpì Peppe. Ero a pochi passi da lui, lo raccolsi subito tra le braccia, inutile fu la corsa in macchina in ospedale. Il nostro dolore straziante, divenne il dolore di tutti gli onesti cittadini. Due mesi dopo, Fausto Tarsitano, avvocato di parte civile, per sollecitare le indagini chiese un incontro con il procuratore della Repubblica. Nella sua lunga dichiarazione ai giornali erano già tutte chiare le ragioni che scatenarono l’assassinio.
A novembre furono arrestati come mandanti Pesce Giuseppe, suo figlio, suo nipote e La Rosa Michele che era iscritto al PCI e lavorava dentro la cooperativa Rinascita. Venne subito espulso dal partito. Il partito, inoltre, a conferma del rigore con cui affrontò la tragedia, sospese e si costituì parte civile anche contro tre compagni che avevano la stima di tutta la sezione. Il P.M. li aveva accusati di reticenza. Poi, a conclusione della sua indagine, lo stesso P.M. chiese il loro proscioglimento. Nel processo fui parte civile e testimone d’accusa.
Raccontai quanto conoscevo delle vicende della cooperativa, dei sospetti denunciati da Giovinazzo e Rosarno, raccontai dei sospettati, della riunione in cui ribadimmo si dovesse operare nel massimo rigore senza guardare in faccia nessuno. E raccontai lo scontro duro contro la mafia a Rosarno e nella Piana. Perché ero e sono convinto che i motivi dell’assassinio del segretario di una delle sezioni comuniste più importanti e combattive non possono essere rinchiusi nei soli interessi presenti nella cooperativa. Giuseppe Pesce, unico rinviato a giudizio come mandante, fu assolto. Alcuni anni dopo i giornali scrissero che il pentito Pino Scriva indicò tra i mandanti oltre ai Pesce, Pisani e Larosa, anche Giuseppe Piromalli – capomafia di Gioia Tauro – e disse che l’esecutore materiale fu Francesco Dominello, a sua volta ucciso per tappargli la bocca.
La relativa istruttoria venne archiviata. Rilevato che fu giustissimo indagare le attività della cooperativa Rinascita (il PCI chiese che si indagasse ovunque) lo stesso rigore sarebbe stato necessario sulle attività comunali e sui lavori di costruzione del porto, tenuto conto che in luogo poco distante dall’agguato che uccise Peppe, venne ritrovato il cadavere del latitante Francesco Aquilano, con al polso un orologio fermo a 11 ore dopo l’assassinio di Peppe e che sempre negli stessi giorni in quel territorio fu ritrovato incendiato il carro funebre rubato a Domenico Punturiero, altro iscritto al PCI, nel territorio di Nicotera, dominato dalla ‘ndrangheta, dove i rapporti e gli interessi delle cosche di Rosarno e Gioia Tauro si incrociavano con quelli della crescente cosca dei Mancuso di Limbadi. Per l’attività estrattiva nella cava da cui partivano inerti, pietrisco, movimento terra e quanto serviva alla costruzione del porto di Gioia che divenne la vera miniera d’oro della ‘ndrangheta. La stessa sentenza scrive di causali alternative non sufficientemente indagate o neppure inserite nella prospettiva dell’indagine.
Se non c’è dubbio che le attività economiche presenti a Rosarno e nella Piana furono certamente il fine dell’assassinio, il fatto scatenante fu lo scontro politico che la mafia intese come sfida pericolosa per il suo prestigio, il suo potere, i suoi disegni. Pericolo che aveva già toccato con mano nel processo di Reggio Calabria contro 60 boss mafiosi. Nel quale, mentre tanti sindaci testimoniarono che nei loro paesi la mafia non esisteva, i comunisti Tripodi, Martorelli, Tornatora, Macino, Sprizzi, con le loro coraggiose testimonianze , com’è scritto nelle motivazioni, contribuirono alla sentenza che inflisse pesanti condanne ai boss mafiosi, tra i quali Piromalli e Pesce.
Scrisse Lina Tamburino: “La sentenza individua uno ‘stato maggiore’ della mafia che ha ‘programmato’ l’assalto alle opere pubbliche e alla spartizione dei profitti’’. Scrive il procuratore Gratteri: “I clan mafiosi rifiutarono l’offerta della percentuale del 3% perché ritenuta esigua e imposero trasporto sabbia, inerti e altre condizioni. Nel periodo compreso tra il 79 e l’83, circa 23 miliardi di lire finirono nelle mani dei clan più potenti della Piana di Gioia Tauro: 14,5 ai Piromalli, 3,2 ai Mancuso di Limbadi, 2,2 ai Pesce, 0,56 ai Bellocco, 0,53 ai Crea, 0,26 ai Mammoliti, 0,17 agli Avignone. Quel ricchissimo bottino mafioso, con tutti gli intrecci politici e affaristici, non entrò nell’indagine, nonostante fosse stato il cuore delle nostre denunce politiche in ogni manifestazione, in ogni comizio, in ogni angolo della Piana, della Calabria e nei tribunali e nonostante fosse ancora calda la sentenza che, in prima istanza, condannò i boss.
Oggi, ripensando a quegli avvenimenti e rileggendo la stessa sentenza, sono ancor di più convinto che la ‘ndrangheta uccise al fine di spadroneggiare sulla politica e su tutte le attività economiche. Quelle legate all’area portuale, ai trasporti, ai subappalti, quelle legate all’agricoltura, al mondo cooperativo e associativo, alle truffe, quelle legate alla gestione del comune, a tutto quanto produce potere e ricchezza.
Colpì a Rosarno perché a Rosarno vi fu lo scontro più duro e diretto, perchè Peppe Valarioti e i comunisti respinsero minacce ed attentati, affermando che nessuna violenza li piegherà mai. E perché le cosche di Rosarno furono indotte e dovettero compiere l’infame assassinio per poter partecipare al banchetto delle spartizioni dei miliardi arrivati e in arrivo. E lo eseguirono con quella tempistica e modalità perché ritennero necessario imprimere la loro firma, come hanno sempre fatto le forze che vogliono dominare con la violenza ed il terrore (pena di morte di esemplarità, la chiamavano nei secoli scorsi ). Il giudice istruttore Antonino Todaro, nell’ordinanza di rinvio a giudizio di Giuseppe Pesce, scrive: ‘’L’assassinio di Valarioti fu un delitto politico-mafioso. Esso giunse dopo gravi fatti delittuosi commessi contro il PCI […] e ha colpito l’unica seria opposizione allo strapotere della mafia, che volle così riaffermare tra la gente la sua imbattibilità per impaurire e disperdere gli oppositori.’’
Obiettivo raggiunto negli anni successivi, in sintonia con l’ingresso diretto della ‘ndrangheta nelle assemblee elettive.
Filippo Veltri scrisse: “Nei risultati del voto c’è il De Stefano cugino del boss di Archi; ci sono i vari notabili ‘ndranghetisti eletti nei comuni della Piana, c’è il Foti, capobastone di Montebello Ionico, latitante; c’è Araniti, parente stretto di boss della omonima cosca di Sambatello; c’è il Ligato, consigliere provinciale del PRI, figlio del capocosca di Ferruzzano e a sua volta imparentato con don Antonio Macrì, il boss dei boss della vecchia ndrangheta. Ecco, mentre in tutta la provincia la ‘ndrangheta era pronta a festeggiare la sua vittoria, la ‘ndrangheta di Rosarno sapeva che l’indomani avrebbe ingoiato il rospo e subito a la festa del soggetto politico che aveva combattuto apertamente contro di essa e ciò avrebbe dato coraggio a tutti i cittadini onesti. Non lo permise e uccise perché volle dimostrare che contro di essa non si può vincere.
E perché non volle perdere di prestigio e di potere al cospetto delle altre famiglie mafiose. Ma, osservò Lina Tamburino: ‘’Ci fu in certi ambienti calabresi la tendenza a leggere il colpo sferrato contro il Pci in una chiave molto riduttiva, quasi per sfuggire all’analisi e alla comprensione della gravità e della profondità della sfida lanciata dalla mafia a tutto il sistema democratico, in concomitanza con l’ingresso diretto nell’agone politico di alcuni suoi esponenti e di uomini più apertamente a essa legati.’’
Poi è Pierluigi Ficoneri a rilevare che “nel 78, i comunisti testimoniano contro i mafiosi. Le grandi famiglie vengono decapitate. Ma nel ’79 il vento cambia. Si dissolve la solidarietà nazionale, i sismografi mafiosi registrano la variazione. Il PCI ne esce più debole ed isolato e la mafia ne approfitta. L’obiettivo immediato è chiaro: ridurre al silenzio gente che per alcuni anni aveva parlato, testimoniato, denunciato.’’
Fu quella la nuova strategia della ‘ndrangheta. Dopo Peppe Valarioti, fu ucciso Giannino Lo Sardo e Quirino Ledda solo per miracolo non venne ucciso assieme ai suoi familiari dalla bomba ad alto potenziale che sventrò la sua abitazione in una notte del ’72. Questa fu la cornice dentro cui si compì l’assassinio di un giovane grande intellettuale, generoso e coraggioso dirigente politico, Peppe Valarioti. Ricordarlo è sempre stato un impegno di lotta. Negli anni in cui abbiamo governato Rosarno, il premio Valarioti è stato sempre assegnato a persone che, in diverse attività, si sono opposte alla ‘ndrangheta.
E quest’anno abbiamo proposto venisse assegnato agli immigrati africani che si sono ribellati alla violenza mafiosa. Perché Peppe vive nella lotta per gli ideali di libertà e giustizia, per i quali sacrificò la sua giovane esistenza. Amò Medma e la sua storia antica. La difese e la voleva valorizzare per la elevazione culturale del nostro popolo e per il lavoro che poteva far nascere. Amò la musica, le arti, la bellezza, che voleva fossero godute da tutti e soprattutto dagli umili. Difesa del patrimonio storico, ambientale, artistico, culturale sono tracce importanti del suo pensiero e di una lotta che dobbiamo continuare e perseguire.
Peppe amò i braccianti, i contadini, gli agricoltori, non solo perché da essi nacque. Ma per la loro fatica, le loro sofferenze. Sapeva come vivevano molti di loro. La miseria nelle abitazioni di un lotto e la povertà delle pietanze. Quante lotte dure per superare quelle condizioni. Quella per la conquista dei mille ettari del Bosco grande o selvaggio che lui voleva scrivere e raccontare. Oggi Peppe avrebbe certamente osservato che gli immigrati vivono in condizioni molto peggiori. Percepiscono meno della metà del salario contrattuale, una parte di esso lo pretendono i soldatini della ‘ndrangheta che gli sparano addosso. Sono certo che Peppe avrebbe considerato legittima difesa la loro protesta, mentre infame fu la caccia al nero e la deportazione dei neri.
Per quanto accaduto c’è la grave colpa dei governanti e delle istituzioni. Ma anche il movimento deve interrogarsi molto. Tutti dobbiamo farlo. Perchè non sentiamo ancora come nostra carne questi giovani che vengono da terre lontane, dai paesi della fame, delle guerre, delle pestilenze. Paesi che le nazioni ricche hanno violentato e impoverito, saccheggiando le loro risorse. Durante i secoli del colonialismo e con l’economia canaglia che ha guidato la globalizzazione e domina il mondo. Al comando degli stessi potentati economici che hanno portato al disastro l’economia, con speculazioni e ruberie. E ne fanno pagare le conseguenze ai giovani, le donne, lavoratori, con la disoccupazione, il basso reddito, la fame.
E per evitare che la collera si indirizzi verso i responsabili della bancarotta, fanno di tutto per indirizzarla verso gli immigrati, indicandoli come responsabili della disoccupazione, della violenza, della crisi della nostra civiltà. Fomentano l’odio tra i nostri emarginati e quelli che arrivano da altre terre. L’eterna guerra tra poveri. Rosarno è metafora del mondo. Come Casal di Principe, come tanti luoghi della Puglia, del Mezzogiorno e dell’Italia, dove gli immigrati sono costretti a spaccarsi la schiena, pagati venti euro a giornata e senza alcuna tutela previdenziale e sindacale. Così come senza alcuna tutela sono i nostri lavoratori precari. Tanti altri, per pochi euro sono costretti a lavorare nei grandi centri commerciali o nei cantieri di mafiosi travestiti da imprenditori.
Moltissimi rimangono disoccupati e tra di essi le ‘ndrine reclutano i manovali, li utilizzano e spesso poi li ammazzano per chiudergli la bocca. E quei pochi giovani che hanno un lavoro devono difenderlo con le unghie e con i denti, come sta accadendo al porto di Gioia Tauro dove sono stati proprio i nostri giovani, con il loro generoso lavoro, che hanno costruito quello che impropriamente è stato chiamato il miracolo. I giovani furono il rovello di Peppe.
Costruire lotte concrete e credibili per il lavoro, per sottrarli alle lusinghe criminali. Questa è la più importante ed attuale traccia del suo pensiero e della sua vita. A noi spetta il compito di unirli: i disoccupati, i precari, gli immigrati, quelli che difendono il posto conquistato e assieme a loro rivolgerci agli imprenditori onesti. E agli agricoltori dobbiamo parlare il linguaggio della verità e non quello della lingua biforcuta della ‘ndrangheta e dei suoi amici. Noi conosciamo il grave malessere degli agricoltori. Noi che proprio dieci anni fa, nel biennio 1999-2000, costruimmo la lotta degli agricoltori derubati che portò nelle piazze della Piana migliaia di agricoltori contro le politiche nefaste dei governanti e contro la mafia ed i suoi complici che si arricchiscono sulle loro sofferenze.
Chiedemmo controlli rigorosi affinché il plafond economico venisse diviso per le arance vere e non per quelle di carta. Fu a seguito di quella lotta che si scoprì che miliardi di carta erano stati certificati come succhi di frutta. Noi siamo sempre con gli agricoltori onesti di Rosarno, della Piana e della Calabria. E appunto per questo non intendiamo ingannarli. La causa del loro disagio non sono gli immigrati. Ma la politica dei governi e la ‘ndrangheta che nel corso degli anni, si è impossessata di tutta la filiera agricola. Dalle campagne alle confezioni, ai trasporti, ai mercati. Impone il prezzo basso ai coltivatori, il sottosalario ai braccianti, il prezzo alto ai consumatori: deruba tutti.
Basta aprire un giornale serio per leggere come tutta l’ortofrutta sia nelle mani delle mafie e quante migliaia di km le fanno fare per lucrare sempre di più. Per ricordare ed onorare la memoria di Valarioti il nostro compito di oggi è quello di spezzare l’intreccio politico affaristico mafioso che depreda l’economia, dalle campagne alle grandi opere, alla finanza di carta. Cancellare leggi ed impulsi liberticidi e razzisti. Combattere assieme ai nostri giovani, ai nostri immigrati e a tutti gli sfruttati del mondo la lotta per liberare le popolazioni dalle mafie, per costruire le sviluppo democratico sociale e civile e contribuire a far nascere un mondo più giusto ed umano.
11 giugno 2010. Auditorium del liceo scientifico di Rosarno. Intervento di Giuseppe Lavorato, ex sindaco PCI di Rosarno, alla commemorazione per i 30 anni dell’omicidio Valarioti.