Nos angustia y crece nuestro suplicio al imaginar cómo pudieron ser los últimos momentos de nuestras hijas asesinadas a base de torturas y vivimos sin vivir…
Ci addolora e cresce il nostro tormento nell’immaginare come possano essere stati gli ultimi istanti delle nostre figlie assassinate sotto tortura…e viviamo senza vivere…
Nuestras Hijas de Regreso a Casa, A.C.
Siamo a Ciudad Juarez, cittadina industrializzata dello stato messicano di Chihuahua, dove oltre quattrocento donne sono state sequestrate, stuprate, torturate e uccise nell’ultimo quindicennio. Altrettante sono scomparse. Un mistero inquietante quanto i filoni di indagine che ancora non hanno svelato alcuna verità. Un’impunità imbarazzante quanto la vergogna di un massacro che nella sua sanguinosa spirale ingurgita connivenza delle istituzioni, corruzione, discriminazione e i crimini del narcotraffico e della prostituzione.
Rifulgono nel grigiore del silenzio quelle croci rosa di Ciudad Juarez. Elena Rivera Morales, 16 anni, Claudia Yvette Gonzales, 20 anni, Lilia Alejandra Garcua Andrade, 17 anni, Elena Guaduan, 26 anni. Sono alcuni chiodi di quelle croci. Rimangono a memoria per i familiari che portano il fardello ineluttabile di vite barbaramente strappate. Esse affiancano le madri e i padri, sopravvissuti alle figlie, nel sopportare il peso insostenibile di un orrore rimasto impunito. Sempre lì, a Ciudad Juarez, sono le pieghe della sabbia a restituire quei corpi mutilati, devastati, bruciati. Oppure è il suo buio ad ingoiarli quando quegli stessi corpi scompaiono. Siamo in Messico al confine con gli Stati Uniti, nel posto meno sicuro del mondo, dove la guerra dei narcos quotidianamente è causa di esecuzioni a sangue freddo, dove l’industrializzazione ha acquisito una dimensione prettamente speculativa, dove il tasso di inquinamento è altissimo. Ciudad Juarez, un milione e mezzo di abitanti in una zona di passaggio nel Messico pericoloso per le donne immigrate, tante, per i giornalisti e per le comunità indigene del Chiapas. La terza città dello stato federale del Messico che deve la visibilità propria e di questa vergognosa e inquietante vicenda anche all’industrializzazione, oltre che alla mobilitazione dei familiari delle vittime.
Dal 1993 essere donna a Ciudad Juarez equivale a non essere. Dal 2001, i familiari delle donne scomparse o uccise hanno fondato un’associazione – Nuestras Hijas de Regresso a Casa A.C – che da allora unanime marcia, protesta, si indigna, chiede giustizia alle autorità che da sempre minimizzano il problema, arrestano persone innocenti e non indagano adeguatamente. Il mistero, infatti, avvolge ancora questo massacro. Forse perché la violenza a Ciudad Juarez è di casa nelle case, forse perché il cartello di Juarez del narcotraffico è tra i più sanguinari del mondo, forse perché esso gestisce anche il racket della prostituzione. Gli inquirenti non hanno tralasciato neanche le ipotesi più sconcertanti quali il traffico di organi, gli snuff video, le sette sataniche, i delitti seriali. Non mancano in questo quadro le prove di minacce e torture inflitte dalle forze di polizia per depistare e imporre il silenzio. Amnesty International continua nella sua richiesta di giustizia, operando pressioni sulle autorità e raccogliendo testimonianze.
Innegabile che vi siano stati degli interventi, ancorché tardivi, delle autorità messicane con l’intensificazione della presenza di agenti federali e l’istituzione su base volontaria dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Diritti Umani. Altrettanto innegabile è che il governo abbia per troppo tempo tollerato, e continui a farlo anche oggi, una violenza sconcertante. Innegabile che la giustizia sia ancora lontana, non quanto il vicino stato del Guatemala. Anche lì solo nel 2003 sono state uccise a seguito di aggressione e rapine oltre trecento donne. Anche lì il sangue è rosa come quelle croci messicane.