Nel tardo pomeriggio di un afoso giugno, il sindaco di un piccolissimo paese della provincia calabrese ha scoperto di essere – grazie a 41 elettori – il baluardo contro la destra xenofoba di mezza Europa e la mafia di casa sua, tra le più temibili ed agguerrite del pianeta. Alle 19 dell’8 giugno 2009, infatti, venivano ufficializzati i risultati delle elezioni amministrative e delle europee. In Gran Bretagna, Olanda, Austria, Ungheria, Finlandia trionfavano le formazioni xenofobe. In Italia la Lega diventava il terzo partito.
A Riace, 1800 votanti non decidono banalmente tra due liste civiche ma se avrà un seguito un’esperienza di accoglienza unica in Italia, ovvero un borgo desertificato dall’emigrazione e riconvertito all’ospitalità di migranti provenienti da tutto il mondo, in particolare richiedenti asilo e rifugiati.
Il modello
Un’esperienza divenuta celebre durante una delle tante crisi di Lampedusa, quando il sindaco di Riace telefonò ad un incredulo interlocutore del Ministero, dicendo: gli immigrati in soprannumero al CIE lampedusano mandateli qui ed ai comuni vicini. Dimostrò che i migranti non sono una patata bollente, ma un’opportunità. Che l’accoglienza si può fare senza fili spinati o pietismo. Nacque il “modello Riace”, da contrapporre alla sindrome dell’invasione, ai CPT ed ai CIE, alla barbarie dilagante di un paese senza memoria e pietà, alle guerre di civiltà da telegiornale ed ai “pacchetti sicurezza”.
Ma alla vigilia delle elezioni comunali, nonostante la solidarietà proveniente da tutta Italia, la lista “Alla luce del sole” sembra sola contro tutti. Anche i partiti della sinistra, che avrebbero dovuto sostenerla, appaiono lontani. Il modello Riace è famoso in Italia ma ostacolato nel proprio territorio: per Domenico Lucano sarebbe forse più facile diventare deputato che sindaco del proprio centro di un migliaio di anime. Ed in campagna elettorale era “scesa in campo” direttamente la ‘ndrangheta: due colpi di pistola contro la taverna “Donna Rosa” ed altrettanti contro il portone di Palazzo Pinnarò, i due luoghi simbolo gestiti dall’Associazione Città Futura. E’ il 15 marzo 2009; il successivo 25 aprile, tre cani del sindaco muoiono avvelenati.
Sono episodi consueti, tra la locride e la Piana, nel lametino e nel vibonese, in Aspromonte o sulla costa jonica. Sono “parte del paesaggio”: l’interazione tra criminali ed amministratori, funzionari ed imprenditori avviene da anni e nell’indifferenza generale con un alfabeto lugubre fatto di autobombe, pistolettate, incendi dolosi e proiettili imbustati.
E qualunque ipotesi di cambiamento viene ostacolata con quelle che una cronaca stanca e quasi assuefatta definisce “intimidazioni” . Ma Riace è un’altra cosa. La solidarietà che arriva da ogni angolo d’Italia è impressionante, e la risposta della società civile calabrese immediata, con la manifestazione del primo maggio chiamata significativamente “Nessuno fermerà la primavera di Riace”. I segni dei proiettili che hanno bucato la porta a vetri del ristorante sono circondati dai calchi colorati di decine di mani, e diventano una involontaria opera d’arte contemporanea in omaggio alla memoria e all’antimafia.
Un titolo “provocatorio”
Tuttavia, la protesta non sembra coinvolgere il vero ago della bilancia tra la protervia dei delinquenti ed il desiderio di cambiamento, ovvero la gente comune, le persone “normali”, tutti coloro che guardano, attendono, osservano prudenti “come andrà a finire”… Il 12 dicembre del 2008 si verificò un evento unico nella storia della Calabria. La rivolta dei lavoratori africani di Rosarno contro la violenza mafiosa avrebbe potuto rappresentare un punto di non ritorno. Oltre a sfilare per le vie del paese, i ragazzi provenienti dal Ghana, dalla Costa d’Avorio e da tanti altri paesi dell’Africa subsahariana testimoniarono contro i loro aggressori, colpevoli di aver sparato a due di loro a scopo estorsivo, realizzando l’impagabile paradosso di fornire un esempio civico ed un servigio a quello stesso Stato che li tratta da anni da fantasmi e potenziali criminali.
Si trattò dunque di un gesto importante anche perché compiuto da cosiddetti “clandestini” , ovvero non-cittadini, senza documenti e con tutto da perdere. In seguito a quel gesto simbolico, nacque un gruppo su Internet, un’intensa attività di informazione e solidarietà ed infine un libro tutti contrassegnati dal titolo “Gli africani salveranno Rosarno”, immancabilmente giudicato provocatorio. Si tratta invece di una banale constatazione, riassumibile in poche parole: solo un atto di ribellione, come quello degli africani di Rosarno, può salvare la Calabria e quella grande fetta di Sud oppressa dalla mafia, dalla corruzione e dall’esercizio di forme di dominio sempre più feroci.
Solo la ribellione può evitare la lenta distruzione di aree del Paese letteralmente in guerra contro sé stesse, dove tra atti violenti ed emigrazione la popolazione si sta “prosciugando” in termini quantitativi e qualitativi, considerando che resta nei paesi e nelle cittadine una popolazione sempre più anziana e rassegnata.
Allargando il punto di vista, solo la conoscenza delle condizioni reali di vita e di lavoro dell’immigrazione irregolare (cioè senza documenti) può salvare l’Italia (e, probabilmente, la stessa Europa dove trionfano i partiti di estrema destra) dalla barbarie di un’intolleranza cattiva e sostanzialmente gratuita.
Riace, dunque, è stata già salvata dagli “africani”, se ci si riferisce con questo termine ai profughi ed ai lavoratori giunti dal Sud del mondo. Un territorio spopolato dall’emigrazione e prosciugato da una mafia terrorista ed ingorda è stato rivitalizzato dalla presenza degli stranieri, in gran parte rifugiati politici, ed è diventato un modello di rilievo nazionale da contrapporre al razzismo istituzionalizzato, alle campagne d’odio dei media, alle paure irrazionali della “gente comune”.