E` stata fissata per il prossimo 21 luglio la sentenza di primo grado sul caso della nave tedesca Cap Anamur, che nell’estate del 2004 fu oggetto di un torbido gioco diplomatico dopo avere salvato 37 naufraghi nelle acque del Canale di Sicilia. Dopo tre settimane di blocco navale, la Cap Anamur venne fatta attraccare a Porto Empedocle e tre componenti dell’equipaggio, il comandante Schmidt, il suo secondo ed Elias Bierdel, inviato a bordo dall’organizzazione umanitaria di diritto tedesco “Comitato Cap Anamur”, vennero arrestati e poi processati con l’accusa di agevolazione dell’ingresso di immigrati irregolari. Adesso il comandante Schmidt e Elias Bierdel rischiano quattro anni di carcere e quattrocentomila euro di multa. Si contesta loro di avere tratto un “profitto indiretto” dalla pubblicità derivata dalla vicenda. Prima gli arresti, poi il processo, per avere fatto entrare nelle acque territoriali italiane 37 naufraghi salvati nel Canale di Sicilia prima che la loro imbarcazione affondasse e per avere concluso l’operazione di salvataggio sbarcandoli, dopo un lungo braccio di ferro diplomatico, nell’unico “porto sicuro” raggiungibile.
Il dibattimento, aperto nel 2006, ha visto cadere una dopo l’altra le accuse che le autorità militari e di polizia avevano rivolto nei loro rapporti al comandante della Cap Anamur, ad Elias Birdel del Comitato Cap Anamur, ed al secondo di bordo per il quale si chiede adesso l’assoluzione. E’ apparso evidente per quest’ultimo, ma solo dopo anni di processo, che non gli potevano essere contestate le accuse sollevate nei suoi confronti per la totale mancanza di un autonomo ruolo decisionale e dunque dell’elemento soggettivo. Ma lo stesso elemento soggettivo del reato di agevolazione dell’immigrazione clandestina non ricorre neppure per Bierdel e per Schmidt, i quali hanno dimostrato di avere agito non per un profitto personale, ma sulla base di finalità umanitarie con decisioni maturate nei tempi e nei contenuti nell’ambito del Comitato Cap Anamur. La nave omonima non era una nave commerciale, ma una nave dotata di uno specifico status umanitario, come tale registrata al registro navale di Lubecca. Dunque le decisioni che si assumevano a bordo non erano rimesse ad un armatore commerciale o ad un comandante ( alle sue dipendenze), ma maturavano, in un ambito più ampio e dunque non potevano che risultare necessariamente più lente. Ed è esattamente questo che si contesta agli imputati, avere tardato ad avvertire le autorità degli stati costieri, dopo avere effettuato l’intervento di salvataggio. Un ritardo che avrebbe “trasformato” i naufraghi in clandestini. Di fatto il processo rischia di trasformarsi in un processo alle organizzazioni umanitarie indipendenti, che non sono sovvenzionate dallo stato ma che sopravvivono tutte grazie alla diffusione tra il pubblico dei risultati della loro attività, ed alla conseguente raccolta di fondi.
Mentre per una nave commerciale il problema sarebbe stato “liberarsi“nel più breve tempo possibile dei naufraghi, anche a costo di sbarcarli su un altro mezzo, nel caso della nave “umanitaria” Cap Anamur si trattava di garantire lo sbarco in un “luogo sicuro”, e dunque dopo avere verificato le condizioni di accoglienza e la stessa possibilità di inoltrare una richiesta di asilo. Anche per questa ragione era stato necessario attendere per alcuni giorni l’arrivo a bordo di uno dei responsabili dell’organizzazione, a fronte delle prevedibili ( e poi confermate dai fatti) resistenze degli stati costieri ad assumere la responsabilità dei naufraghi e accettare le richieste di asilo.
Il successivo stato di crescente tensione a bordo della Cap Anamur, subito dai naufraghi per settimane, sotto una attenzione mediatica mondiale che andava ben oltre quanto avrebbe potuto “promuovere” un Comitato umanitario, derivava dai gravi ritardi e dalle contraddizioni dei governi interessati che, soprattutto dopo il vertice di Sheffield del 6 luglio 2004, chiudevano la porta in faccia ad ogni tentativo di soluzione negoziata della vicenda. E’ questa risultava la vera causa scatenante della situazione di disperazione vissuta dai naufraghi negli ultimi giorni prima dell’arrivo a Porto Empedocle, una situazione vissuta e documentata anche da alcuni giornalisti, che determinò poi quello “stato di necessità” che costrinse la Cap Anamur con il suo carico di migranti a varcare il limite delle acque territoriali, dopo che tutti i naufraghi avevano depositato una richiesta di asilo, circostanza ritenuta irrilevante nel corso del dibattimento. Come se la indicazione di una falsa nazionalità di appartenenza, accertata successivamente, solo dopo lo sbarco, destituisse di fondamento il convincimento dei responsabili della Cap Anamur di avere di fronte non solo naufraghi ma richiedenti asilo. Come confermano le recenti critiche ricevute dall’Italia anche dall’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati, dopo i respingimenti collettivi in Libia, le navi in acque internazionali non sono il luogo per l’esame del merito delle domande di asilo, e l’ufficiale di bordo che le riceve non può che prenderne atto, trasmettendole alle competenti autorità.
La sentenza che sarà pronunciata dal Tribunale di Agrigento avrà carattere interlocutorio in quanto è facile prevedere che, quale che sia il suo contenuto, la Procura della Repubblica, o gli avvocati degli imputati, proporranno appello, ma assumerà una importanza politica straordinaria, anche a livello internazionale, in un momento in cui il ministro Maroni si scaglia contro “ i professionisti dell’antirazzismo”. Un attacco che assume i caratteri di un “avvertimento” neppure tanto velato, un vero e proprio atto di indirizzo, si potrebbe osservare, che ci auguriamo il Tribunale di Agrigento sappia ignorare, attenendosi ai fatti emersi durante il dibattimento ed alle norme di diritto interno ed internazionale.
Per mantenere sotto accusa almeno due dei tre imputati, dopo la sfaldamento dell’originario impianto accusatorio, nel quale si era arrivati a parlare persino di un tentativo di “speronamento” da parte della Cap Anamur nei confronti di mezzi militari italiani, davanti a Porto Empedocle, circostanza subito smentita proprio dalle riprese video degli eventi, si è sostenuta la tesi che la azione di salvataggio sarebbe stata gestita per farsi pubblicità sulla pelle dei migranti, allo scopo di incrementare la raccolta di fondi in favore dell’organizzazione umanitaria Cap Anamur. E in questo, secondo l’accusa, si potrebbe individuare il fine di profitto “indiretto” che qualifica il reato di agevolazione dell’ingresso di “clandestini”, previsto dall’art. 12 del Testo Unico sull’immigrazione. Come se l’associazione denominata “Comitato Cap Anamur”, una associazione non lucrativa per definizione, proprietaria della nave omonima, avesse potuto ricavare un lucro, diretto o indiretto, dall’operazione di salvataggio. Come se l’interesse patrimoniale della associazione “Comitato Cap Anamur” coincidesse, o si potesse confondere con interessi personali, sempre di natura patrimoniale, del comandante Schmidt e di Elias Birdel, all’epoca dei fatti non presidente, ma responsabile della missione della nave umanitaria Cap Anamur, che portava a bordo un ospedale da campo da consegnare in un porto africano. In realtà tutti i componenti dell’equipaggio a bordo della Cap Anamur ricevevano la stessa paga mensile, di poco superiore a mille euro. E questa cifra non è certo aumentata per gli imputati a seguito del compimento dell’azione di salvataggio.
Sorprende e desta amarezza l’attacco emerso in alcune fasi del processo nei confronti di alcuni giornalisti presenti a bordo, i quali hanno fatto solo il proprio lavoro, in piena autonomia e con grande professionalità. La conclusione della recente vicenda della PINAR dimostra ancora oggi quanto sia importante la presenza bordo di giornalisti, a fronte della sistematica tendenza degli stati di negare, a bordo delle navi che effettuano azioni di salvataggio, la ricorrenza di uno stato di necessità, in modo da sottrarsi ai doveri di accoglienza previsti dal diritto internazionale.
Per quanto riguarda il diritto interno, l’art. 10 del testo unico sull’immigrazione n.286 del 1998 prevede uno specifico potere di respingimento (differito) dello stato, disposto dal questore nei confronti degli stranieri “ temporaneamente ammessi nel territorio dello stato per necessità di pubblico soccorso”. E questa norma trova un limite preciso ( quarto comma) nel caso di “richiedenti asilo politico, di richiedenti lo status di rifugiato, ovvero l’adozione di misure di protezione temporanea per motivi umanitari”. Non è certo possibile sostenere, come fa in questi giorni il governo italiano, che in acque internazionali non esistono richiedenti asilo, perché allora, non avrebbero più senso quelle norme che richiamano l’ingresso nel territorio dello stato “ per necessità di pubblico soccorso” e vietano i respingimenti immediati nel caso venga proposta una domanda di asilo. Ma per costringere gli stati ad applicare queste norme, sono spesso necessari testimoni indipendenti come i giornalisti o i rappresentanti delle organizzazioni umanitarie, come si è verificato ancora una volta nel caso della nave PINAR, pochi mesi fa. Esattamente come si era verificato anni prima nel caso della Cap Anamur.
Il ritardo nella comunicazioni e la ricerca di un porto sicuro per lo sbarco dei naufraghi, che nel frattempo avevano manifestato la volontà di chiedere asilo, non possono trasformare una azione di salvataggio in una condotta penalmente sanzionabile parificata all’agevolazione dell’ingresso di immigrati privi di un visto. Come se in qualche giorno i “naufraghi” potessero diventare “clandestini”, prima ancora di varcare il limite delle acque territoriali, e dunque di fare ingresso nel territorio dello stato. Una accusa infamante per chi ha fatto del portare soccorso agli altri la ragione della sua vita. Una accusa stabilita a tavolino durante il vertice dei ministri dell’interno italiano, tedesco e inglese nell’incontro di Sheffield il 6 luglio del 2004. Una accusa derivata dall’esigenza del governo italiano del tempo che non voleva creare un “precedente”, dopo il rifiuto del governo tedesco che non intendeva più accettare le domande si asilo, come sembrava convenuto dopo i primi giorni di trattativa.
Fino alle ultime battute del processo di primo grado, continua a restare priva di una qualche incidenza nella valutazione della condizione soggettiva degli imputati la circostanza, che, già prima dello sbarco a Porto Empedocle, i naufraghi avessero formulato una richiesta di asilo e che sulla nave erano saliti, mentre questa si trovava ancora in acque internazionali, numerosi rappresentanti di agenzie umanitarie, tra cui il dott.Christopher Hein del CIR (Consorzio italiano per i rifugiati), che avevano ricevuto e formalizzato la chiara volontà dei naufraghi di chiedere asilo. Lo stesso CIR, interessato già dal 26 giugno 2004, per come si desume dalla stampa di quel periodo e da numerosi comunicati, e per quanto emerso nel corso del dibattimento, era stato al centro di una trattativa tra i governi italiano e tedesco sulla sorte della Cap Anamur e del suo carico di naufraghi. Eppure a quella trattativa, che riguardava anche lo stato che avrebbe dovuto esaminare le richieste di asilo – tema rilevante per qualificare il comportamento dei responsabili della Cap Anamur – sembra che nessuno oggi voglia dare più importanza.
Quale che sia l’esito della sentenza di primo grado. non si riuscirà a chiarire il vero lato oscuro di questa vicenda, costituito dalla trattativa intercorsa per settimane tra i governi italiano, tedesco e maltese, soprattutto dopo l’incontro dei tre ministri dell’interno ( italiano, inglese e tedesco) a Sheffield il 6 agosto 2004, di fronte alla impossibilità concreta di applicare a casi come questo la Convenzione di Dublino, che stabilisce il paese competente ad esaminare le richieste di asilo, e di fronte alla pervicace volontà degli stessi governi di criminalizzare qualsiasi forma di ingresso dei migranti, anche ai danni di naufraghi o di potenziali richiedenti asilo. Ancora in questi giorni la materia della distribuzione delle richieste di asilo tra i diversi paesi dell’Unione Europea rimane un tema controverso, e persino le regole delle missioni in Mediterraneo dell’Agenzia Europea per il controllo delle frontiere esterne, FRONTEX, sono su questo punto assai vaghe.
Adesso l’Unione Europea, anche dopo il caso Cap Anamur, sembrerebbe finalmente orientata a superare il regolamento n. 343 del 2003, inteso come regolamento Dublino II. Le direttive comunitarie in materia di status e procedure di asilo e il decreto legislativo 25 del 2008 hanno privato intanto l’autorità di polizia di frontiera del potere di giudicare manifestamente infondate le richieste di asilo, come avvenuto proprio nelle fasi finali del caso Cap Anamur, subito dopo lo sbarco dei naufraghi a Porto Empedocle.
Le associazioni ed i movimenti, i giornalisti e le singole persone, che erano stati accanto ai migranti salvati della Cap Anamur ed ai loro soccorritori, non certo per fare pubblicità sulla vicenda, approfondiranno le motivazioni della sentenza del Tribunale di Agrigento, che diventerà comunque un vero “caso di scuola”. In tanti continueranno a seguire tutte le fasi del processo di appello dal quale si spera possano emergere, in ogni caso, le gravissime responsabilità, anche a livello politico ed istituzionale, nella gestione del controllo delle frontiere e delle espulsioni nel Canale di Sicilia. Quelle stesse responsabilità nei respingimenti collettivi praticate a partire dal 7 maggio scorso da unità della Marina militare e della Guardia di Finanza, che sono state denunciate da 24 migranti consegnati, a Tripoli , dalle autorità italiane al ministero dell’interno libico, ed attualmente detenuti in prigioni riverniciate con i fondi dell’Unione Europea ma senza alcuna garanzia di poter esercitare i loro diritti più elementari, come di fare valere una richiesta di protezione internazionale. E quando saranno esaurite le vie di ricorso interne sulla vicenda potrà essere chiamata a pronunciarsi anche la Corte Europea dei diritti dell’uomo.
Chiediamo giustizia per i componenti dell’equipaggio della Cap Anamur, “colpevoli” solo di una azione di salvataggio e sottoposti da anni ad un processo disonorevole e ad un danno esistenziale incalcolabile. Ma chiediamo giustizia anche, per gli autori di azioni di salvataggio ed assistenza in favore di immigrati irregolari, per tutti i potenziali destinatari del “reato di solidarietà”, che sembra auspicare adesso il ministro dell’interno Maroni per ridurre al silenzio i “professionisti dell’antirazzismo”.
Ci auguriamo che la magistratura giudicante assolva al suo ruolo istituzionale nel pieno rispetto dei valori di indipendenza ed imparzialità affermati dalla Carta Costituzionale. E speriamo anche che i giudici del Tribunale di Roma dedichino la stessa attenzione che è stata dedicata al caso Cap Anamur, alla denuncia presentata da alcuni deputati radicali contro i respingimenti in Libia ordinati nelle scorse settimane da Maroni. Siamo veramente curiosi di conoscere quale è la base giuridica degli ordini impartiti dal Ministero dell’interno alle unità della marina militare e della Guardia di Finanza che nel mese scorso hanno riportato in Libia i migranti soccorsi nelle acque del Canale di Sicilia.
I ricorrenti attacchi all’autonomia della magistratura e la sottrazione dei poteri di indagine, prima assegnati all’ordine giudiziario, ed affidati adesso all’autorità di polizia, rischiano di assegnare alle autorità amministrative la conformazione dei fatti penalmente rilevanti, ben oltre il rispetto del principio di legalità, in modo da diminuire l’area del controllo giurisdizionale garantito dalla Costituzione sui provvedimenti amministrativi che limitano diritti e libertà fondamentali come il diritto di asilo e di protezione internazionale ( e persino il diritto di cronaca) . Il soccorso umanitario, imposto dalle leggi internazionali al di fuori dei confini delle acque territoriali, è escluso da qualsiasi sanzione penale in forza del dettato dell’art. 12 comma secondo del Testo Unico sull’immigrazione n.286 del 1998, secondo il quale “, fermo restando quanto previsto dall’art. 54 del codice penale ( stato di necessità), non costituiscono reato le attività di soccorso e di assistenza umanitaria prestate in Italia nei confronti degli stranieri in condizioni di bisogno comunque presenti nel territorio dello stato”.
Sarebbe davvero singolare, e costituirebbe un segnale assai preoccupante per il futuro, sanzionare penalmente una azione di salvataggio, che ha avuto inizio in acque internazionali, ma che si è svolta per settimane, come ampiamente documentato dai mezzi di informazione, sotto il potere di respingimento, e dunque sotto la giurisdizione, delle autorità italiane, prima nelle “acque della zona contigua” e poi nelle acque territoriali, fino all’attracco in un porto italiano. Una vicenda che si sarebbe potuta concludere in pochi giorni e senza il coinvolgimento dei media di tutto il mondo, se i governi interessati, piuttosto che preoccuparsi del rischio di “creare un precedente”, avessero rispettato fino in fondo i doveri di salvataggio e l’obbligo di accogliere i richiedenti asilo, sanciti dalle Convenzioni internazionali e dalle norme interne di recepimento.