Il dovere della memoria

Il quindicesimo anniversario del genocidio in Ruanda

  Quindici anni fa si compiva nel cuore dell`Africa il terzo genocidio del Novecento, dopo quello di armeni ed ebrei. Emmanuel Murangira, il guardiano delle ossa di Murambi, la scuola dove, il 21 aprile del 1994, furono massacrati 50.000 ruandesi, racconta la sua drammatica esperienza di sopravvissuto a quel massacro accusando gli assassini e denunciando le responsabilità dell’Occidente
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Massacro a Murambi, raccontato da Emmanuel Mugenzira

Mi chiamo Emmanuel Mugenzira. Sono nato qui a Gikongoro nel 1957, nel distretto di Nyamigabe. La mia famiglia è morta qui nel sito del Murambi memorial – mia moglie, i miei cinque bambini, due maschi e tre femmine – sono tutti morti qui. Il più grande aveva solo 13 anni. Non riesco a parlare di loro.

Prima della guerra ero un agricoltore e successivamente ho avuto un lavoro all’ufficio provinciale. Ma fui licenziato dal Sindaco – per via del mio gruppo etnico. Sono ritornato a coltivare, ma non passò molto tempo che la guerra ebbe inizio e cominciarono ad uccidere la gente.

Il modo in cui la guerra prese piede fu il risultato del cattivo governo del Presidente Habyarimana. Prima di allora, la gente viveva felicemente insieme, ma poi gli furono insegnate cose negative – che i Tutsi erano “scarafaggi” e una cattiva tribù. Dopo che l’aeroplano di Habyarimana fu abbattuto, furono organizzati immediatamente degli incontri dalle nostre autorità locali, e gli Interahamwe e i soldati cominciarono a venire verso le colline, bruciando case, prendendo il bestiame e uccidendo la gente.

L’8 aprile, fuggimmo a rifugiarci nella parrocchia di Gikongoro dove vivevamo. Al 16 di aprile molta gente si era radunata là e qualcuno era rimasto fuori, sotto la pioggia. Il Sindaco della nostra provincia Laurent Ukibaruta, il Capitano Seduhura, il Sindaco Semakwavu del nostro distretto e il direttore della piantagione di thé a Mata, il signor Kamodoka, tennero un incontro con tutti i sindaci e i consiglieri e ci dissero di andare nella scuola di Murambi. Lo facemmo e arrivammo il 16 aprile. La vita lì era dura perché avevano tagliato i tubi dell’acqua. Ci diedero quattro gendarmi per proteggerci, ma il 17 aprile non li vedemmo mai più. Invece, cominciammo ad essere attaccati il 18 aprile. Combattemmo contro gli attaccanti usando pietre e molte persone morirono durante la battaglia. Noi usavamo le pietre, loro i fucili, ma alla fine desistettero perché non riuscivano sconfiggerci.

Il 19 e 20 aprile, combattemmo contro quelli che cercavano di infiltrarsi. Poi il 21 aprile, alle 3 di notte, arrivò un camion pieno di milizia e soldati. Scesero al posto di blocco, circondarono l’area e cominciarono a sparare. Quelli che cercavano di scappare vennero colpiti. Tutto questo continuò. Fui colpito alla testa; fui spogliato e lasciato là perché pensavano che fossi morto.

Dopo che se ne andarono, me ne andai nelle vicinanze della foresta di Nzega. Il giorno dopo, portarono trattori per seppellire i corpi e uccisero tutti quelli che ancora non erano morti. Li guardai seppellire la gente e quando capii che la mia famiglia era tutta morta, decisi di partire.

Camminavo di notte e mi riposavo di giorno finché arrivai in Burundi. Mi ci vollero tre giorni per arrivarci perché non c’era modo di poter circolare durante il giorno. Quando raggiunsi il confine, la mia testa era tumefatta e fui salvato dai soldati che trovai laggiù. Mi misero in un’auto e mi portarono all’ospedale di Kayanza. Avevo camminato per tutto il tempo, nudo, nel freddo e nella pioggia. Oltre alle mie ferite, avevo anche la malaria. Fui salvato soltanto da Dio. Rimasi in Burundi e alla fine ritornai in Ruanda coi profughi che erano fuggiti nel 1959.

All’inizio rimasi a Nyamata, ma poi tornai a Gikongoro per mostrare le fosse comuni perché la gente negava che ci fosse stato un massacro a Murambi. Venni qui e seppellii la gente con dignità. Ho tenuto duro, ma è difficile vivere in un posto dove hai perso l’intera famiglia. Ho mia moglie e i miei cinque bambini sepolti qui, la mia intera famiglia. Devono esserci 66-70.000 persone uccise qui, ma ne abbiamo esumate soltanto 20.000. Ho tenuto duro qui, vivendo una pessima vita. Abbiamo esumato i cadaveri che potete vedere qui a Murambi – ecco la vita che ho fatto per cinque anni

Ho resistito perché non c’e alternativa, ma è veramente duro e spaventoso per noi descrivere le cose a cui abbiamo assistito. Ho sentito inoltre il bisogno di prendermi cura della mia famiglia finché non sarà sepolta, così la proteggo. E ci sono persone che hanno bisogno di sapere cosa è successo qui a Murambi e io glielo spiego.

Per il futuro del Ruanda, vedo che le cose vanno bene, anche se ci sono ancora persone con dei cuori così bestiali, persone che hanno ucciso. Puoi scommetterci che lo farebbero ancora, ma sono spaventati dalle autorità che sono ora al governo.

Anche se la Gacaca (tribunali popolari, ndr) è stata istituita, non posso dire cosa accadrà. Ci sono cose che mi lasciano perplesso ad ogni modo. Ci sono persone che hanno commesso il genocidio e sono coinvolte nella Gacaca, così non so come possano concludere alcuni casi. Penso che potrebbero insabbiare alcune cose, perché quelle persone potrebbero essere accusate anche loro. Forse da qualche altra parte va bene, ma non qui a Gikongoro.

La riconciliazione non è un problema. Il problema è che quelli che hanno ucciso, mangiato il nostro bestiame e rubato le nostre cose non si avvicinano a noi per comunicare. Loro fuggono via da noi, così non so come possiamo perdonare quando non c’è stata alcuna forma di comunicazione tra di noi. Ci sono un sacco di persone come queste che ti guardano e che avrebbero preferito che tu fossi morto.

 

Approfondimento: Ibuka, il dovere della memoria

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