«Se questa non è mafia, allora diteci cos’è»… Così Angelina Manca, madre dell’urologo Attilio Manca ha commentato lo scorso 11 febbraio, in un dibattito pubblico a Barcellona Pozzo di Gotto (Me) la situazione nella quale vive un’intera provincia soggiogata dal sistema politico mafioso. Sistema che i coniugi Manca ritengono responsabile della morte del figlio Attilio trovato senza vita nella sua abitazione di Viterbo la notte di cinque anni fa, ufficialmente suicida. Secondo i genitori pesanti indizi legano questo inscenato suicidio con la latitanza del boss di Cosa nostra Bernardo Provenzano. Attilio Manca, medico urologo, sarebbe stato «ingaggiato» dalla mafia barcellonese (da sempre operativa sulle latitanze dei grandi boss siciliani) per visitare e operare il finto «Gaspare Troia» nella clinica di Marsiglia nell’ottobre del 2003.
Attilio Manca era l’unico medico in Italia capace di operare tumori alla prostata in laparoscopia. Un fiore all’occhiello della medicina italiana, un giovane che si era fatto da sé e dopo anni di specializzazione aveva raggiunto questo livello di eccellenza (unico in Europa, insieme ad un collega francese). Una carriera brillante, un presente sereno e molti progetti in cantiere, fra i quali una partenza verso l’estero. Nonostante tutto questo, secondo le prime indagini portate avanti dalla procura di Viterbo, questo giovane medico all’apice della sua carriera, una sera sarebbe tornato a casa dopo una giornata di lavoro, avrebbe preparato due siringhe con dentro un cocktail di droghe e sdraiatosi sul letto, avrebbe deciso di farla finita iniettandosi per ben due volte con la mano sinistra nel polso sinistro (ricordiamo solo che Attilio era mancino) questo mix di sostanze. Non si sa bene, inoltre, come il medico si sia procurato da solo dei lividi al volto (per gli inquirenti cadendo su un telecomando, che però verrà ritrovato lontano dal viso dell’uomo).
LO STATO DELLE INDAGINI
« Le prime indagini sono state sbrigative, imprecise e traballati» ha ricordato nell’incontro del 11 febbraio a Barcellona Pozzo di Gotto, il legale della famiglia Manca, Fabio Repici. « Molte – dichiara Repici – sono le inerzie, le incongruenze e se vogliamo le incompetenze, che si sono riscontrate nelle indagini della procura sul caso Manca». A partire dall’omissione di alcune telefonate che invece risulteranno nei tabulati telefonici (compiute da e verso il cellulare del giovane medico) sino al dissequestro frettoloso dell’appartamento di Viterbo nel quale solo oggi dopo due archiviazioni, sono state effettuate le rilevazioni delle impronte digitali.
Proprio l’incidente probatorio in corso, infatti, ha permesso di accertare alcune circostanze. La sera in cui il giovane medico avrebbe deciso di farla finita non era solo in casa. La scientifica ha rintracciato 19 impronte digitali: 14 risultano di Attilio Manca, 5 sono invece di altre persone ignote. Solo una di queste impronte si è potuta attribuire con certezza ad un parente del medico, il cugino Ugo Manca (imputato per traffico di droga nel processo Mare nostrum). Il cugino ha sempre fatto risalire la sua presenza nella casa del medico ad una visita compiuta due mesi prima della sua morte. Le ultime consulenze di periti però ritengono incompatibile le condizioni ambientali dell’ abitazione con la permanenza delle impronte e datano invece in un tempo successivo la presenza di «ignoti» nell’appartamento. Molte inoltre risultano le impronte che sembrerebbero essere state cancellate: come si fa dopo un delitto nel tentativo di togliere le tracce. Perché una procura ha fretta di chiudere un caso che di mafia, per lo meno nelle prime settimane, non sembrava parlare? Perché una procura così lontana (almeno cinque anni fa) da fatti di mafia sul proprio territorio, agisce con molto fastidio – come commenta la madre Angelina Manca – «laddove il legale chiede i normali riscontri» sul caso?
BERNARDO PROVENZANO A MESSINA
La risposta a questa domanda la danno i pentiti, le carte giudiziarie, e le indagini che in questi ultimi anni stanno ricostruendo pezzo per pezzo la rete di connivenze e appoggi che ha garantito al boss numero uno di Cosa nostra una latitanza dorata per 43 lunghissimi anni. «Prima di Montagna dei cavalli (il luogo nel quale è stato ritrovato Provenzano) – dichiara l’avvocato Repici – abbiamo modo di credere che Provenzano sia stato latitante qui a Barcellona Pozzo di Gotto, il che non è una novità per questa provincia ». A sostegno di questa che ormai è più di una ipotesi alcuni fatti, per i quali l’avvocato Repici ha già ricevuto querele e non poche difficoltà. «Ci sono dei fatti circostanziati che da soli non accusano nessuno ma che sono organici a latitanze di questo calibro; a Barcellona per esempio c’è un convento che ospita dei frati; fra questi in un periodo ben preciso c’è stato frate Ferro, membro della famiglia che risulta essere stata organica alla latitanza di Bernardo Provenzano». Inoltre, alcune intercettazioni telefoniche fra boss locali confermerebbero la presenza del boss nel messinese (“ragione avevano i Manca a dire che “iddru” è stato qui” si legge nell`ordinanza dell`operazione Vivaio). Se non bastasse altri fatti: gli ultimi, recentissimi, arrivano dalle deposizioni dei boss Francesco Franzese e Gaspare Pastoia che confermerebbero con due diversi elementi la presenza del capo di Cosa nostra nei dintorni di Barcellona Pozzo di Gotto
ISOLAMENTI E SILENZI
Riscontri più che sufficienti per riaprire il caso Manca e riprendere ad indagare su questa morte per la quale i genitori chiedono, nell’ isolamento pubblico della città, giustizia. « Non mi fermerò – ha concluso ieri Angelina Manca – non mi fermerete mai sinché non saprò chi e perché ha deciso che mio figlio doveva morire». «Me l’hanno ucciso due volte; da un lato la mafia – ha continuato – dall’altro il silenzio che su questo caso è calato, l’unico giornalista ad occuparsene, pensate un po’, è stato un giornalista spagnolo che ha scritto sul caso il libro “L’Enigma del caso Manca”. La casa editrice ha ricevuto già tante querele, il libro sta incontrando in Italia, censure e oscuramenti».
E mentre al dibattito in memoria di Attilio Manca prendono la parola, Sonia Alfano, Biagio Parmaliana, Beppe Lumia, Felice Lima e altri relatori c’è anche chi trova il modo per dire che «parlare di queste cose in città vuol dire gettare fango sul paese». Una precisa regia, una tecnica vecchia gestisce questi interventi in favore dello status quo (intervento identico infatti avvenne solo alcune settimane fa durante l’ incontro in memoria del cronista Beppe Alfano, ucciso dalla mafia a Barcellona Pozzo di Gotto nel 1993). Solo una constatazione: per un giovane che qualche tempo fa ad Agrigento aveva osato urlare dinnanzi ad un pregiudicato «viva il pool antimafia, viva Caselli»
sono scattate sei ore di interrogatorio in una stanza delle forze dell’ordine, mentre per chi denigra familiari di vittime e magistrati, dall’altra parte della Sicilia non accade nulla.
Se la gestione di appalti pubblici, la richiesta di pizzo, gli omicidi, la corruzione, i reati di ecomafie e la gestione delle discariche delle provincia, non sono mafia, «allora – come commenta la madre di Attilio Manca – diteci cos’è ».
Cos’è questa «cosa» che da queste parti non si può ancora chiamare con il nome «mafia»?