Migranti. Gli accordi tra Italia ed Egitto

Lampedusa, i divieti di espulsione e respingimento

Fulvio Vassallo
  Alcune decine di cittadini egiziani sono stati rimpatriati da Lampedusa. Occorreva fornire immediatamente una risposta “esemplare” e rassicurante, nello stile del governo Berlusconi. L`accertamento dell`età (i minori non possono essere rimpatriati) è avvenuto con un inaffidabile esame radiologico. A tutti deve essere garantito il diritto di fare ricorso.
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1. Da Lampedusa deportati in Egitto.

Secondo uno scarno comunicato del ministero dell’interno del 31 dicembre 2008, nella notte precedente, sarebbero stati rimpatriati da Lampedusa, “direttamente” in Egitto, 35 cittadini di origine egiziana: 28  partiti dall’isola delle Pelagie alle ore 21,20 e 7 successivamente imbarcati con uno scalo tecnico a Catania. L’AGI riferisce invece che la questura di Agrigento aveva prima parlato di 35 egiziani, ma nel corso della giornata ( 30 dicembre) “altri nove sono stati identificati nel centro di prima accoglienza di Lampedusa e si è potuto attribuire loro con certezza la nazionalità egiziana”, presupposto indispensabile per il rimpatrio. In tal modo il numero degli stranieri sottoposti a espulsione immediata sarebbe salito a 44.

Non è noto come si sia riusciti ad attribuire in così poco tempo una nazionalità certa a persone che dopo essere state salvate in mare si trovavano all’interno di un centro di prima accoglienza come quello di Contrada Imbriacola. Dopo l’intensificarsi degli arrivi di migranti irregolari a Lampedusa nelle ultime settimane di dicembre occorreva fornire immediatamente una risposta “esemplare” e rassicurante, nello stile del governo Berlusconi. L’enfasi con la quale l’operazione è stata comunicata dal ministro ai mezzi di informazione si spiega soltanto con la necessità di coprire gli scarsi risultati, dal punto di vista dello stesso ministro, e dei sostenitori del governo si presume, delle pratiche di controllo delle frontiere marittime nel Canale di Sicilia. In realtà non si è trattato affatto di una novità. Secondo un altro comunicato dello stesso ministero dell’interno,“l’operazione condotta dal Dipartimento della Pubblica Sicurezza, si inquadra all’interno dell’accordo di cooperazione tra i due Paesi. Nel 2008 sono stati effettuati 38 voli charter che hanno consentito di rimpatriare 1.199 stranieri” (si deve ritenere verso l’Egitto).

Secondo Maroni, che sarà a Lampedusa il 5 gennaio 2009, dei 164 egiziani, riconosciuti come tali dalle autorità italiane, probabilmente in collaborazione con agenti ed interpreti del governo egiziano, “143 avevano sostenuto di essere minorenni; (e) in quei casi si procede a un esame radiologico per risalire all`età”. Non si sa quali possibilità di ricorso siano state riconosciute a quei (sedicenti) minori che, dopo tale esame, sono stati ritenuti di maggiore età, e quindi immediatamente inviati in un centro di detenzione italiano (Caltanissetta) o imbarcati su un volo charter verso il proprio paese di origine.

Come è noto, in base alla letteratura scientifica internazionale, l’accertamento dell’età attraverso l’esame radiologico del polso ha una approssimazione media di due anni, due anni che possono fare la differenza tra la vita e la morte, considerando che molti di coloro che vengono respinti, anche se minori, riprovano a lasciare il loro paese ed a tentare la traversata del canale di Sicilia, con conseguenze spesso tragiche. Anche per questa ragione il primo verdetto sull’età di una persona dovrebbe essere sottoposto a revisione, magari sulla base di indici diversi e più affidabili. Ma questa banale ragione evidentemente a Lampedusa non vale, luogo dove in futuro, se prevarranno i nuovi orientamenti ministeriali, conteranno sempre meno tanto la ragione che il diritto.

Le persone entrate o soggiornanti irregolarmente, e tra queste anche i migranti giunti irregolarmente a Lampedusa, quale che sia la loro età, a partire dal momento del loro ingresso in Italia, devono avere possibilità adeguate di presentare un ricorso davanti a un tribunale durante la procedura di rimpatrio. In materia, si fa riferimento all`art. 6 della CEDU e all`art. 47 della Carta dei diritti fondamentali, che garantiscono il diritto ad un rimedio efficace e a un giusto processo.

Questioni attinenti ai diritti umani sono in gioco anche nel caso della detenzione (a qualsiasi titolo) delle persone soggiornanti illegalmente. Si deve sempre rispettare il principio del controllo giudiziario sulla detenzione, intesa come qualsiasi limitazione della libertà personale, in conformità dell`art. 5 della CEDU. Non vi può essere, dal punto di vista del riconoscimento dei diritti fondamentali, alcuna differenza tra lo straniero soggiornante irregolarmente e lo straniero entrato irregolarmente e in attesa di espulsione o di respingimento. Prescrizioni ancora più rigorose sono stabilite dalle Convenzioni internazionali a protezione dei diritti dei minori, nel caso di dubbio sull’età effettiva dei migranti.

Tutte queste regole di diritto internazionale sono richiamate dal diritto interno all’art. 2 ed all’art. 19 del Testo unico sull’immigrazione, n.286 del 1998, che prevede cause specifiche di inespellibilità, tra le quali la minore età. Ma queste stesse norme sembrano non valere più a Lampedusa, come se si trattasse di una zona extraterritoriale, dove al fine di contrastare l’immigrazione “illegale”,sembra possibile “sospendere” provvisoriamente l’applicazione delle regole del diritto, anche per l’evidente assenza, in quel luogo di un ufficio di Questura, di una Prefettura e di un Tribunale.

Nei fatti, i provvedimenti restrittivi della libertà personale degli immigrati irregolari rimangono rimessi alla discrezionalità dell’autorità di polizia e le possibilità di ricorso effettivo per chi rimane confinato in quell’isola sono quasi nulle. Una situazione che potrebbe paragonarsi con le “zone di transito” di alcuni aeroporti internazionali, dove agli immigrati privi di un visto di ingresso viene negato, oltre che l’ingresso nello stato, persino il diritto di chiamare un avvocato, un medico o di chiedere assistenza ad una associazione umanitaria. Un caso che, già in territorio europeo, potrebbe integrare gli estremi del trattamento inumano e degradante vietato dall’art. 3 della Convenzione europea a salvaguardia dei diritti dell’uomo.

La Corte Europea dei diritti dell’uomo ha sanzionato in passato quei paesi che avevano istituito negli aeroporti delle “zone di transito” specificamente destinate agli immigrati irregolari, che per questa ragione venivano allontanati più rapidamente, senza quelle garanzie di libertà e di difesa, a partire dal diritto ad un ricorso effettivo, che sono riconosciute a tutti gli altri immigrati privi di uno status di soggiorno regolare, comunque presenti nel territorio dello stato. A tal proposito è interessante richiamare la sentenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, nel caso Amur/Francia del 1996. Si trattava di alcuni cittadini somali fermati nella zona di transito dell’aeroporto di Parigi per circa venti giorni. La Corte in proposito riconosceva “il diritto incontestabile per gli Stati di sorvegliare l’ingresso ed il soggiorno di stranieri nel proprio territorio”. Tuttavia, tale diritto, che corrisponde alla sovranità dello stato, sempre secondo la Corte, deve esercitarsi in conformità della Convenzione e dunque senza violare alcuno dei principi affermati nella stessa CEDU, anche con riferimento al divieto di espulsioni collettive. Non sembra comunque agevole paragonare la situazione delle zone di transito aeroportuale, istituite con modalità diverse negli stati europei, al contesto geografico e giuridico di un isola come Lampedusa, con riferimento ad immigrati che nella grande maggioranza vi giungono a bordo di mezzi della marina italiana, dopo essere stati soccorsi in acque internazionali, a meno di non affermare la natura extraterritoriale di questa isola rispetto allo stato italiano.

2. Il divieto di espulsioni collettive.

L’art. 4 del Protocollo Addizionale n. 4 alla Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali vieta le espulsioni collettive di stranieri, che, in base alla giurisprudenza della Corte Europea dei diritti dell’uomo, si verificano tutte le volte in cui non venga presa in considerazione la “posizione individuale” della persona sottoposta alla misura di allontanamento forzato, a maggior ragione in tutti i casi nei quali non si provveda ad una identificazione certa.

L’art. 19 della Carta Europea dei diritti dell’uomo vieta espressamente le espulsioni collettive, ed una giurisprudenza costante della Corte Europea dei diritti dell’uomo si esprime nel medesimo senso. La Corte Europea dei Diritti dell`Uomo ha considerato come espulsioni collettive una serie di provvedimenti individuali contro persone della stessa nazionalità che si trovavano nella stessa situazione di doggiorno irregolare, a partire dal nel caso Conka/Belgio con una sentenza emessa il 5 maggio 2002. La Corte si è espressa su questa materia con grande nettezza: “The Court reiterates its case-law whereby collective expulsion, within the meaning of Article 4 of Protocol No. 4, is to be understood as any measure compelling aliens, as a group, to leave a country, except where such a measure is taken on the basis of a reasonable and objective examination of the particular case of each individual alien of the group. That does not mean, however, that where the latter condition is satisfied the background to the execution of the expulsion orders plays no further role in determining whether there has been compliance with Article 4 of Protocol No. 4“.

Dunque, non solo occorre che l`espulsione sia convalidata dall` autorità giudiziaria sulla base di elementi prettamente individuali, ma si tiene in considerazione anche il contesto in cui tale espulsione viene attuata. La Corte aggiunge anche che: ” in those circumstances and in view of the large number of persons of the same origin who suffered the same fate as the applicants, the Court considers that the procedure followed does not enable it to eliminate all doubt that the expulsion might have been collective“.

Spetta allo Stato, in definitiva, addurre prove che dimostrino che non si sia trattato di un`espulsione collettiva.

Malgrado questi dati normativi internazionali ed interni, richiamati in diverse sentenze dei giudici di merito, con la sentenza della Corte di Cassazione n.16571 del 2005 si legittimava l’espulsione di persone attraverso “provvedimenti fotocopia” emanati dal Prefetto o dal Questore, con la stessa motivazione, senza procedere ad una identificazione certa, peraltro impossibile nelle poche ore che separano l’adozione della misura del respingimento dall’allontanamento forzato in frontiera.

A proposito delle espulsioni collettive, la stessa Corte di Cassazione richiamava una propria precedente decisione (Cass. 23134/04), nella quale si citava proprio l`indirizzo della Corte Europea in merito alla latitudine del divieto di espulsione collettiva di cui all`art. 4 del IV protocollo addizionale alla CEDU, che ricomprende “ quelle espulsioni adottate nei riguardi di un gruppo di stranieri senza che per ciascuno di essi venga svolto esame ragionevole ed obiettivo delle ragioni e delle difese di ciascuno innanzi all`Autorità competente”. Non si vede perché un principio tanto importante che vale in caso di espulsione, non debba valere anche nel caso dei respingimenti adottati sulla base dell’art. 10 del Testo Unico n.286 del 1998. Entrambe le misure di allontanamento costituiscono provvedimenti limitativi della libertà personale, che ricadono nell’area di applicazione dell’art. 13 della Costituzione, e non possono sottrarsi al controllo dell’autorità giudiziaria, nei tempi e nelle forme dettati dal testo costituzionale e dalle norme in materia di trattenimento degli immigrati irregolari previste dall’art. 14 del Testo Unico sull’immigrazione. A Lampedusa come in qualunque altra parte del territorio italiano.

Si deve purtroppo rilevare come la possibilità di un ricorso giurisdizionale contro il respingimento “differito” disposto dal Questore ( non quindi quello che si realizza materialmente al momento del tentativo di ingresso in frontiera, che rimane un mero comportamento materiale ), sia alquanto teorica perché il provvedimento formale emesso dal Questore si deve impugnare davanti ad un Tribunale Amministrativo, e questo risulta ancora più difficile, se non del tutto impossibile, quando le misure di allontanamento forzato sono disposte da autorità amministrative che si trovano o si spostano nei luoghi di prima accoglienza, come appunto Lampedusa, luoghi ben lontani dalle sedi presso le quali si potrebbero impugnare i provvedimenti di allontanamento forzato ( basti pensare alla difficoltà di sottoscrivere una procura per l’avvocato di fiducia ed all’assenza di difensori di ufficio, oltre che di…una sede giudiziaria).

Oltre all’art. 3 della Convenzione Europea a salvaguardia dei diritti dell’uomo ( che vieta il respingimento o l’espulsione verso paesi nei quali si possa essere sottoposti a trattamenti inumani e degradanti) altre norme della stessa Convenzione, come gli artt. 5, 6 e 13 sanciscono il diritto ad un ricorso effettivo e vietano, anche sotto questo profilo, qualsiasi discriminazione. Queste norme di rango gerarchicamente superiore rispetto alle prassi amministrative, possono essere violate dalle misure di allontanamento forzato che abbiano ad oggetto, in modo indifferenziato una pluralità di persone, quasi sempre senza una identificazione certa o addirittura di età dubbia.

Nel 2005 una Risoluzione del Parlamento Europeo condannava le espulsioni collettive da Lampedusa verso la Libia decise dal ministro Pisanu, ma malgrado questa ferma condanna il nostro paese continuava a deportare in Libia per tutto il 2005 migranti giunti irregolarmente a Lampedusa, finanziando peraltro la successiva deportazione da questo paese verso gli stati di origine, dove molti di loro trovavano carcere, torture e talora anche la morte per mano della polizia ( come accertato in Eritrea). 

Al di là del divieto di espulsioni collettive, nonostante ulteriori provvedimenti della Corte europea dei diritti dell’uomo (Terza Sezione, Sentenza 11/01/2007, Salah Sheekh/Paesi Bassi ,application no. 1948/04, e poi nel 2008 caso Saadi/Italia), e dopo diversi provvedimenti di sospensione provvisoria di misure di allontanamento forzato, per contrasto con l’art 3 della CEDU, l’Italia continuava ad eseguire misure di allontanamento in violazione del divieto di trattamenti inumani e degradanti. In particolare le espulsioni o i respingimenti effettuati dall’Italia verso la Libia e l’Egitto nel 2004 e nel 2005 venivano censurate in rapporti di varie agenzie umanitarie (come AMNESTY ed ENAR) e dell’Alto Commissariato per i Diritti Umani delle Nazioni Unite (rapporto Diene).

In qualche caso si procedeva anche a vere e proprie espulsioni collettive, ricorrendo ad autentici cavilli burocratici, come la notificazione individuale di provvedimenti identici, o la identificazione attraverso la asseverazione di funzionari diplomatici e di interpreti che stabilivano la nazionalità delle persone da rimpatriare. I provvedimenti di allontanamento venivano consegnati materialmente agli interessati solo all’atto di imbarcarsi sul volo che li riconduceva nel paese di origine. Spesso si negava che le persone allontanate avessero manifestato la volontà di chiedere asilo o protezione internazionale.

Altre volte mancava la prova della formalizzazione del provvedimento di allontanamento forzato disposto dal Questore. Nel caso della Libia, nel 2004 e nel 2005, l’Italia non ha mai risposto alla richiesta della Corte Europea dei diritti dell’uomo, che voleva acquisire copia dei provvedimenti di allontanamento forzato da Lampedusa succedutisi a partire dall’ottobre del 2004. Eppure l’art. 10 comma 2 lettera b, del Testo unico sull’immigrazione n.286 del 1998, prevedeva ( e prevede) che quando lo straniero si presenta ai valichi di frontiera e viene “temporaneamente ammesso nel territorio per necessità di pubblico soccorso”, ai fini dell’allontanamento forzato sia espressamente richiesto un provvedimento del Questore, mentre le autorità di polizia devono tenere un “registro” dei respingimenti in frontiera. Le persone migranti, anche se prive di documenti regolari, non sono fantasmi da fare scomparire nel nulla.

3. Gli accordi Italia Egitto.

Dal mese di marzo del 2007, in particolare, centinaia di cittadini egiziani irregolarmente giunti a Lampedusa, o salvati da mezzi della nostra marina militare e poi condotti nel’isola, venivano rimpatriati in Egitto, dopo essere stati trasferiti dall’isola pelagica all’aeroporto di Catania, definito in queste occasioni come “scalo tecnico”.

Un altro “salto di qualità”nella collaborazione tra Italia ed Egitto, dopo la chiusura, grazie all’intervento in quel paese di unità militari italiane, nel 2004, della “rotta di Suez” che aveva comportato la riconsegna al governo cingalese di migliaia di tamil in fuga dalla guerra civile. Pratiche di cooperazione di polizia che avevano avuto come conseguenza la tortura e la morte di molti di coloro che erano stati deportati dal Cairo a Colombo.

Le operazioni di riammissione tra Italia ed Egitto, con voli diretti da Catania e da Roma al Cairo, erano rese possibili dall’accordo di collaborazione firmato proprio nel gennaio del 2007 dal governo italiano, in persona del sottosegretario agli esteri Intini e alla presenza del viceministro all’interno Lucidi, accordo che, in cambio di qualche migliaio di posti riservati ai lavoratori egiziani nelle quote ammesse annualmente con i decreti flussi, consentiva forme di attribuzione della nazionalità, se non della identità personale e dell’età, assai celeri, grazie anche alla collaborazione di funzionari e interpreti egiziani presenti in Italia.

Già nel 2005, peraltro, tra il governo italiano e quello egiziano esisteva un “Accordo di cooperazione in materia di flussi migratori bilaterali per motivi di lavoro”, siglato al Cairo il 28 novembre 2005 dall` allora ministro del lavoro Roberto Maroni. Nel testo dell`accordo si prevedeva che i due governi, al fine di “gestire in modo efficiente i flussi migratori e prevenire la migrazione illegale”, si impegnano a facilitare l`incontro tra la domanda e l`offerta di lavoratori migranti da e per l`Egitto.

Il governo italiano, dal canto suo, si impegnava a valutare l`attribuzione di una speciale quota annuale per lavoratori migranti egiziani. Nel protocollo esecutivo si legge che il ministero del Lavoro e delle politiche sociali italiano comunicheranno all`omologo egiziano i criteri, ai sensi della normativa italiana, per redigere una lista di lavoratori egiziani disponibili a svolgere un`attività lavorativa subordinata anche stagionale in Italia. La lista dovrà essere pubblicata sul sito web del ministero del Lavoro italiano”. Basta verificare l’andamento dei decreti flussi adottati in questi ultimi anni e i ritardi accumulati, e poi controllare il numero di lavoratori egiziani effettivamente entrati in Italia con un visto di ingresso per ragioni di lavoro, per verificare quanto questo accordo possa avere “giovato” ai lavoratori egiziani, ancora costretti in gran parte a tentare la via dell’ingresso irregolare.

Niente di nuovo dunque, nelle roboanti dichiarazioni del ministro dell’interno Maroni relative al rimpatrio immediato di alcune decine di migranti egiziani respinti nel dicembre del 2008 da Lampedusa verso l’Egitto. I rimpatri da Lampedusa in Egitto, con scalo tecnico a Catania, che per le modalità ed i tempi delle identificazioni e per la motivazione uniforme adottata, possono configurare delle vere e proprie espulsioni collettive, sono dunque in corso già da tempo, e vengono enfatizzati adesso solo per camuffare l’ennesimo fallimento delle politiche di contrasto dell’immigrazione clandestina, ritenuto a torto come l’unico strumento di governo del complesso fenomeno delle migrazioni.

4. Ancora un centro di detenzione a Lampedusa e ancora intese operative con la Libia.

La vera novità delle ultime posizioni di Maroni, poi integrate dal capo della polizia Manganelli, consiste invece nella dichiarazione che a Lampedusa nel 2009 verrà attivato un CIE ( Centro di identificazione ed espulsione) “provvisorio”, non si sa se ripristinando il vecchio lager all’interno dell’aeroporto, chiuso nel 2006, o altrove. Secondo il ministro, i migranti che nel 2009 giungeranno nell’isola irregolarmente ( si presume a meno che non si tratti di richiedenti asilo o di minori, o, ancora di donne in stato di gravidanza) saranno tutti trattenuti a Lampedusa fino all’espletamento delle pratiche necessarie per il loro allontanamento forzato, senza essere trasferiti in altri CIE ( i vecchi CPT) della penisola.

Il sistema della detenzione amministrativa in Italia, come il sistema dell’accoglienza dei minori e dei richiedenti asilo è al collasso da tempo, molte regioni si oppongono all’apertura di altri centri di detenzione e in questo modo forse si spera di attenuare gli effetti devastanti che deriveranno dalla decisione del governo di prolungare i tempi della detenzione amministrativa. Come non si sa dove trovare i soldi per finanziare l’accordo con la Libia, rimane ancora un mistero come si attrezzeranno entro poche settimane i dieci nuovi CIE ( oltre al CIE provvisorio di Lampedusa) che il ministero dell’interno (sottosegretario Palma) agita come uno spauracchio da mesi. Uno spauracchio che evidentemente non fa paura a nessuno dei tanti migranti che persino nel mese di dicembre sono arrivati irregolarmente a Lampedusa, a rischio della vita, sfidando condizioni atmosferiche proibitive. Se le dichiarazioni del ministro dell’interno e del capo della polizia si tradurranno in fatti, malgrado le riserve espresse da altri esponenti dell’attuale maggioranza di governo, la situazione a Lampedusa diventerà ingestibile, e non saranno certo i pattugliamenti congiunti con la polizia libica, che sempre a detta dello stesso Maroni dovrebbero attivarsi entro gennaio, che riusciranno a decongestionare la situazione nell’isola, restituendole la sua “naturale vocazione turistica”, come richiesto dagli abitanti e dal sindaco.

“Nel 2009 gli sbarchi dalla Libia verso Lampedusa cesseranno”. Così il ministro dell`Interno Maroni ha garantito per il nuovo anno una piena attuazione dell’intesa con Tripoli sul pattugliamento delle coste. Sei motovedette, fornite dall’Italia ed affidate a personale libico, appostate di fronte ad un litorale, quello nordafricano, di migliaia di chilometri, una costa quasi del tutto disabitata, non cambieranno assolutamente nulla, salvo forse a produrre qualche ulteriore tragedia del mare, magari per un tentativo di speronamento da parte dei militari libici ai quali saranno affidate le motovedette, esattamente come si è verificato in quelle zone costiere dell’Africa settentrionale nelle quali si sono intensificati i controlli aero-navali contro l’immigrazione irregolare. Considerando i tempi i rotazione del personale a bordo, i probabili problemi di manutenzione, il reperimento dei ricambi dei motori e le condizioni meteo-marine, ciascuna motovedetta, ceduta dagli italiani e “gestita” dai libici, dovrebbe controllare per ciascun turno operativo oltre mille chilometri di costa, un compito arduo persino per un aereo ricognitore. D’altra parte è evidente che il problema della “collaborazione” della Libia con l’Italia nel contrasto dell’immigrazione clandestina non è esclusivamente tecnico ma è anche di natura politica ed economica, come lo stesso ministro La Russa ha cercato di ricordare con scarso successo al collega Maroni.

La Libia chiede come precondizione per controllare maggiormente la costa nord che i paesi europei forniscano risorse e mezzi per controllare le frontiere meridionali, in particolare con il Sudan, con il Chad e con il Niger. Sono ben noti i risultati del pattugliamento delle frontiere sud della Libia, già previsto dagli accordi tecnici firmati a Tripoli nel dicembre del 2007 dalla sottosegretaria Lucidi. Al confine sud della Libia, con il Niger in particolare, le pattuglie italiane non sono mai arrivate, salvo forse qualche “ufficiale di collegamento”e qualche missione esplorativa, anche perché non si è trovato un accordo neppure sull’armamento in zone di frontiera (migliaia di chilometri di deserto) assai difficili anche per un gruppo di militari bene addestrati.

Non sappiamo se la Libia otterrà in qualche mese i trecento milioni di euro che ha chiesto all’Europa per potenziare il suo (modesto) sistema di controllo delle frontiere, in particolare di quelle meridionali. E’ invece evidente come, senza accordi politici seri, senza canali umanitari per i richiedenti asilo, senza alcuna possibilità di ingresso in Europa, al di là dei fantomatici decreti flussi italiani, migranti economici e richiedenti asilo saranno sempre di più costretti a battere le strade dell’immigrazione irregolare, quale che sia la portata dei provvedimenti annuncio varati dai governanti europei.

Per non parlare della violazione sistematica di principi fondanti le convenzioni internazionali a protezione dei diritti della persona, come l’art. 3 della CEDU e l’art. 33 della Convenzione di Ginevra sui rifugiati, ormai documentati in Libia, ma anche in Egitto, dalle principali agenzie internazionali e da documentati siti internet organizzati da giornalisti indipendenti (vedi www.fortresseurope.blogspot.com). Come la Libia anche l’Egitto non riconosce effettivamente il diritto di asilo o altre forme di protezione internazionale che dovrebbero valere in tutti i paesi dell’Unione Europea. Alcuni anni fa al Cairo, proprio nel mese di dicembre, la polizia non esitò ad aprire il fuoco sulla folla di centinaia di richiedenti asilo che protestavano davanti alla sede dell’ACNUR. In quella occasione furono uccisi anche donne e bambini. Una vicenda per la quale nessuno ha pagato e sulla quale si è stesa presto una coltre di silenzio.

Ma le espulsioni lampo da Lampedusa verso l’Egitto prospettano anche la violazione di norme interne, a partire dal diritto alla convalida di un magistrato dei provvedimenti di allontanamento forzato che, al di là della loro denominazione, incidono sulla libertà personale. Una vera e propria riserva di giurisdizione imposta dall’art. 13 della Costituzione, norma che non si può ritenere non applicabile, neppure in una situazione di emergenza come quella che si viene puntualmente a ricreare a Lampedusa per effetto delle scelte repressive ( e  peraltro del tutto inutili) del governo. Così affermava la Corte Costituzionale nella sentenza n.222 del 2004, e quanto rilevato in margine ad un procedimento di espulsione,per quanto disatteso dal successivo intervento del legislatore, con la legge 270 del 2004, non può non valere nei casi di respingimento “differito” in frontiera con provvedimento del Questore.

“La sentenza n. 105 del 2001 non investì l’accompagnamento alla frontiera in sé, ma lo considerò quale logico presupposto del trattenimento. Tuttavia, quanto in essa affermato già preannunciava la soluzione di una eventuale questione di legittimità costituzionale che avesse avuto ad oggetto l’accompagnamento alla frontiera quale autonoma misura non legata al trattenimento presso i centri di permanenza temporanei. L’esigenza di colmare un vuoto di tutela ha indotto il legislatore ad intervenire con il d.l. n. 51 del 2002, il cui art. 2 prevedeva l’obbligo del questore di comunicare il provvedimento con il quale è disposto l’accompagnamento alla frontiera immediatamente e, comunque, entro quarantotto ore dalla sua adozione all’ufficio del Procuratore della Repubblica presso il tribunale territorialmente competente. A sua volta, il Procuratore della Repubblica, verificata la sussistenza dei requisiti, doveva procedere alla convalida del provvedimento entro le quarantotto ore successive alla comunicazione. La norma si chiudeva disponendo che: “Il provvedimento è immediatamente esecutivo”. Le modifiche apportate in sede di conversione, con la legge n. 106 del 2002, hanno riguardato anzitutto l’autorità giudiziaria preposta alla convalida – non più il Procuratore della Repubblica bensì il tribunale, in composizione monocratica, territorialmente competente – e, poi, la previsione della immediata esecutività del provvedimento con il quale è disposto l’accompagnamento alla frontiera, la quale è ora inserita, come autonomo inciso, subito dopo la prevista comunicazione del provvedimento al giudice e prima della disciplina della convalida.

Il procedimento regolato dall’art. 13, comma 5-bis, contravviene ai principî affermati da questa Corte nella sentenza sopra ricordata: il provvedimento di accompagnamento alla frontiera è eseguito prima della convalida da parte dell’autorità giudiziaria. Lo straniero viene allontanato coattivamente dal territorio nazionale senza che il giudice abbia potuto pronunciarsi sul provvedimento restrittivo della sua libertà personale. È, quindi, vanificata la garanzia contenuta nel terzo comma dell’art. 13 Cost., e cioè la perdita di effetti del provvedimento nel caso di diniego o di mancata convalida ad opera dell’autorità giudiziaria nelle successive quarantotto ore. E insieme alla libertà personale è violato il diritto di difesa dello straniero nel suo nucleo incomprimibile. La disposizione censurata non prevede, infatti, che questi debba essere ascoltato dal giudice, con l’assistenza di un difensore. Non è certo in discussione la discrezionalità del legislatore nel configurare uno schema procedimentale caratterizzato da celerità e articolato sulla sequenza provvedimento di polizia-convalida del giudice. Vengono qui, d’altronde, in considerazione la sicurezza e l’ordine pubblico suscettibili di esser compromessi da flussi migratori incontrollati. Tuttavia, quale che sia lo schema prescelto, in esso devono realizzarsi i principî della tutela giurisdizionale; non può, quindi, essere eliminato l’effettivo controllo sul provvedimento de libertate, né può essere privato l’interessato di ogni garanzia difensiva. Le censure svolte dai remittenti non possono infine essere superate facendo ricorso alla tesi del c.d. “doppio binario” di tutela per lo straniero: convalida soltanto “cartolare” del provvedimento di accompagnamento alla frontiera e successivo ricorso sul decreto di espulsione con adeguate garanzie difensive. Sarebbe infatti elusa la portata prescrittiva dell’art. 13 Cost., giacché il ricorso sul decreto di espulsione (art. 13, comma 8) non garantisce immediatamente e direttamente il bene della libertà personale su cui incide l’accompagnamento alla frontiera.

Di certo, dopo l’approvazione della “direttiva della vergogna”, la direttiva comunitaria sui rimpatri approvata dal Consiglio Europeo il 18 dicembre 2008, si darà spazio ancora più ampio alla cd. “cooperazione pratica”, intese di polizia dei diversi paesi che possono stabilire discrezionalmente le modalità operative dei mezzi di contrasto e delle pratiche di riammissione, con misure che vanno ben oltre le regole comunitarie e le prescrizioni costituzionali, ritenuti da alcuni inutili formalismi che non risultano funzionali nel contrasto dell’immigrazione irregolare. Lampedusa conferma però come forzare le regole di diritto, o sospenderle provvisoriamente, non produca i risultati sperati dai fautori della fortezza Europa. Rimane solo lo sfregio per le istituzioni democratiche e per le garanzie di libertà delle persone.

Ancora una volta saranno i fatti smentire le dichiarazioni propagandistiche e a fare giustizia delle “pratiche riservate” di riammissione e delle posizioni contraddittorie assunte anche in questa occasione dal governo Berlusconi, in campagna elettorale permanente contro gli immigrati e chi ne difende i diritti fondamentali. Quali che siano le direttive politiche del governo, funzionari amministrativi, forze dell’ordine e appartenenti alla Marina o all’Aviazione Militare rimangono comunque tenuti al rispetto delle leggi vigenti e del diritto internazionale universalmente riconosciuto. E’ bene che ciascuno ricordi, momento per momento, le gravissime responsabilità che si assumono nel trasferimento di persone da un paese all’altro in violazione di disposizioni derivanti da trattati internazionali o da leggi, e dunque di rango certamente superiore rispetto ad una estemporanea direttiva del ministro dell’interno.

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