No Ponte - No War

Gli affari del capitalismo italiano in Iraq

  Chi concorre a "ricostruire" l`Iraq bombardato dalla coalizione alleata? Le aziende italiane uscite illese dal ciclone Tangentopoli. Tra esse le candidate alla realizzazione del Ponte sullo Stretto. Il ruolo di Lino Cardarelli, nel Cda della Società Stretto di Messina.
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Avete mai sentito parlare di “guerra per il dopoguerra”? E` una cosa che hanno inventato i “democratici liberatori” (si pensi all`Italia, 60 anni fa, e al “Piano Marshall”). Si fa così: prima si bombarda un popolo, e, se non si riesce a conquistarlo, lo si tiene sotto embargo; poi si completa l`opera con un`altra scarica di bombe che distruggerà tutto quello che in autonomia e con grandi sacrifici il popolo in questione è riuscito davvero a “ricostruire”. I bombardamenti non sono mirati unicamente – come dovrebbe essere (sennò è terrorismo!) – sulle postazioni militari… no no, mirano alle infrastrutture (ponti, centrali, scuole ecc.), alle industrie… insomma a tutto quello che non dovrebbe essere obiettivo di attacchi militari (per non parlare del disastro ambientale). Poi – ma è meglio preventivamente – si spartisce (si fa per dire) la torta della “ricostruzione”, ed ovviamente agli ascari toccano solo le briciole (i subappalti, cioè: difatti, la Francia, memore del `91, ha declinato l`invito del 2003…).

Nel Paese da “ricostruire”, intanto, si “liberalizza”, si “privatizza”, e in poco tempo la “sovranità economica” è un pallido ricordo… questa, è, in sintesi, la “ricostruzione”!

Cardarelli e Prevete. Non sono due italiani qualunque, ma i ‘direttori del traffico’ per gli appalti miliardari di casa nostra sulla via dell’Iraq.

Prevete – nome di battesimo Bernard – è un funzionario del ministero per il Commercio estero, dislocato presso l’ambasciata italiana a Washington. La sua precisa ‘mission’ – spiegano all’Ice, l’istituto per il commercio estero – è quella di “acquisire informazioni strategiche sui programmi del governo Usa in materia di appalti e finanziamenti per la ricostruzione dell’Iraq e, in questo modo, fornire la lista delle aziende americane potenzialmente interessate a subappalti con quelle italiane”.

Direttamente sul posto, invece, opera Lino Cardarelli, che a inizio anno è sbarcato a Baghdad. Il 16 gennaio 2004, infatti, il consiglio dei ministri, “previa relazione dei ministri Frattini e Lunardi, ha autorizzato il prof. Lino Cardarelli ad assumere l’incarico di vice responsabile del Program management office, la struttura guidata a Bagdad dall’ammiraglio Nash e competente nella gestione dei contratti per la ricostruzione dell’Iraq”.

Fitto il curriculum professionale di Cardarelli, con precedenti in Fondiaria, Montedison, Banca Nazionale del Lavoro (la figlia Francesca ha lavorato come addetta stampa dell’ex numero uno di Bnl Nerio Nesi). E’ travolto dal ciclone di Mani pulite, accusato di falso in bilancio con tanto di fondi neri arcimiliardari nelle Antille Olandesi: la fa franca per la solita, benedetta prescrizione.

Storico amico di Calisto Tanzi, passata la bufera viene accolto a braccia aperte dal ministro per le Infrastrutture Renzo Lunardi, che a maggio 2002 lo fa entrare nel consiglio d’amministrazione della Società per lo Stretto di Messina, il business degli anni duemila. Poi, il volo in Iraq.

LA BUSINESS GUIDE IRAQ

Ma come sta funzionando l’allegra macchina da guerra degli appalti nel martoriato Iraq? Cerchiamo di capirlo. Un ruolo primario viene svolto dal ministero per le Attività produttive (titolare il forzista Antonio Marzano), che sta ossigenando – a botte di milioni di euro – la presenza di imprese italiane nella ricostruzione irachena.

Un esempio? Simest, una “finanziaria di sviluppo e promozione delle imprese italiane all’estero”, controllata per i tre quarti dallo stesso dicastero, e per la restante parte da istituti di credito, imprese e associazioni di categoria: un consistente stanziamento a favore delle nostre imprese, pari a 64 milioni di euro, è stato destinato per i “Paesi del bacino mediterraneo, dell’area subsahariana e per l’Iraq”.

Iperattivo il sottosegretario alle Attività produttive, Adolfo Urso di An (anni fa vice direttore del quotidiano partenopeo Roma edito da Pasquale Casillo e firmato dal pugliese Domenico Mennitti). La primavera scorsa, dopo una ricognizione lungo l’asse Washington-Amman, Urso comunicò il dato sulla presenza delle nostre imprese per la ricostruzione: a suo dire almeno 35. “La maggior parte – dettagliò – è coinvolta nella fornitura di componentistica e attrezzature elettromeccaniche indirizzate sia ai prime contractors americani sia ai ministeri iracheni; mentre un certo numero di imprese è coinvolto nella realizzazione di opere infrastrutturali nel settore elettrico e idrico”.

“Un numero letteralmente raddoppiato – commenta per la rivista Rassegna sindacale Vittorio Longhi – rispetto alle 16-18 dell’inizio anno. Ma il governo italiano lavora da tempo a un pacchetto di proposte per agevolare l’ingresso italiano nel business”. Miracoli di san Gennaro, anche in terra araba.

Del resto, il primo ministro-fantoccio del governo iracheno Ali Allawi, nel corso della sua visita romana lo scorso febbraio, parlò espressamente di grosse ‘opportunità’ per le nostre imprese, di progressiva ‘liberalizzazione’ del mercato iracheno, di ‘potenzialità’ sempre maggiori: la prolusione di Allawi si svolse presso la sede dell’Ice, forse per tenere a battesimo un prodotto appena confezionato dal nostro Istituto per il commercio estero: la Business Guide Iraq, ovvero Guida e consigli pratici per fare business in Iraq.

Per chi non ha capito, spiegano i responsabili: “Il taglio della guida è fortemente pratico e costituisce un utile vademecum per tutti gli operatori italiani che si accingessero a recarsi in Iraq”. Non contenti, così precisano i promotori Ice: “La Guida, consultabile on-line sul sito www.ricostruzioneiraq.it sarà aggiornata periodicamente alla luce dell’evolversi della mutevolissima situazione in Iraq”.

Capito, signori imprenditori e investitori? Ma ascoltiamo qualche voce fuori dal coro.

Un funzionario del ministero per le Attività produttive cerca di chiarire: “la Confindustria ha passato un elenco di 350 imprese interessate a partecipare ai lavori. Il solito mare nel quale perdersi, così come succede per il nostro elenco delle imprese cosiddette ‘di fiducia’. Da tener presente la trentina di società che già operano in Iraq, e le tante attive da anni nei paesi arabi”. Insomma, un bel rebus per raccapezzarsi nella giungla delle opere arcimilionarie in Iraq.

Per ricapitolare, diverse aziende nostrane sono in pole position: Torno in prima fila, e poi Ansaldo Energia, Astaldi costruzioni, Fata Group, Gtt (ex Fiat Avio) e Tekind. “Il grande affare sarà la gestione dei subappalti – è un commento che si raccoglie all’Ice – un po’ come è capitato in Italia con l’Alta velocità e, prima ancora, con la ricostruzione post terremoto”.

La solita storia, a base di scatole cinesi, di sigle che s’accaparrano fette delle maxi torta e poi la suddividono fra altre società, a loro volta in grado di spartirla attraverso ulteriori sigle.

ACQUA D’ORO

Nel libro-mastro delle imprese ce n’è per tutti i gusti. Si parte dalle consociate del gruppo Eni, già da tempo attive nel territorio di Nassiriyah. Per passare alla Nuova Magrini Galileo, al Gruppo Trevi (già presente nel programma Oil for food), all’aretina Ceia per la fornitura di metal detector (una priorità?, sic), alla meneghina Ficep. “Ma saranno le acque, il vero terreno di conquista”, rivelano ancora all’Ice.

In pole position una sigla tutta nostrana, nientemeno che l’Acquedotto pugliese, caro a Massimo D’Alema: “potrebbe aggiudicarsi – aggiungono all’Istituto commercio estero – alcune commesse”. Poca cosa, comunque, rispetto a quelle che potranno essere appannaggio di altre star del settore. Come la Unidro e, soprattutto, un’altra pugliese-milanesizzata, la Emit facente capo ai fratelli Ottavio e Giuseppe Pisante, già in prima fila nei chiacchierati business somali sui quali stava indagando Ilaria Alpi.

Ma quali sono alcune star in prima linea nei business dei paesi mediorientali, e perciò favorite negli appalti iracheni? Ecco una rapida carrellata…

Partiamo dagli Emirati Arabi. Spunta subito Fisia Italimpianti spa, venuta alla ribalta in Campania per un altro business, quello dei termovalorizzatori (é l’odierna Fibe). E’ poi la volta di ‘consorella’ Impregilo – che oggi fa capo alla famiglia Romiti – per passare poi all’onnipresente gruppo Pirelli di Tronchetti & Afef e a una Parmafood che riporta alla Tanzi story (un’altra parmense doc, Bertoli srl, del resto s’è accaparrata una commessa da 100 milioni di dollari per la fornitura di pompe e gruppi elettrogeni).

E’ quindi la volta di un pezzo da novanta nelle acque, Techint, sempre riconducibile alla famiglia Pisante; poi eccoci a Technip, il colosso italo-transalpino finito nel ciclone di Tangentopoli (presente anche in Iran). E ancora, una Tad che si occupa di metalli (riconducibile alla famiglia milanese degli Agarini, negli anni ottanta in affari con la pomiciniana Icla), per finire in gloria con la Gava Forwarding di vago sapore partenopeo.

In Arabia Saudita torna in campo Impregilo, seguita a ruota da Astaldi, uno dei gruppi mattonari più potenti in Italia (a inizio anni novanta doveva entrare nell’orbita Icla). Non fa mancare, of corse, la sua presenza Technip. Passiamo alla Giordania, dove fra le imprese italiane più attive fanno segnalare la loro presenza la Emit (Ercole Marelli Impianti Tecnologici spa), che fa capo al solito gruppo Pisante, e alla Condotte d’Acqua spa, ex colosso del parastato, negli anni ottanta guidato dall’ex presidente dell’Iri – e andreottiano doc – Franco Nobili, lì lì, in quegli anni, per passare al timone dell’Icla.

Finiamo con il Libano, dove si rimbocca da anni le maniche un partenopea doc, la Icar. Una volta – nei gloriosi anni ottanta del dopo terremoto – proprietà di Eugenio Cabib (uno dei mattonari doc della Napoli post laurina fino al terremoto); poi passata sotto il controllo di Marilù Faraone Mennella, compagna dell’ex presidente di Confindustria Antonio D’Amato.

REGIME USA

Ma il grande business – inutile dirlo – è appannaggio dei colossi a stelle e strisce. A botte di milioni e milioni di dollari. Di maxi contratti, la gran parte dei super-17 che rappresentano la vera polpa del business della ricostruzione un po’ in tutti i settori, dall’edilizia alle infrastrutture, all’energia e al petrolio, alla sicurezza, all’acqua e chi più ne ha più ne metta.

Sullo sfondo a base di petroldollari & appalti, si stagliano alcune sigle acchiappatutto (le quali, evidentemente, faranno appalti & subappalti a cascata per amici, compari e affini): Becthel, Berger, Fluor e Parsons; oltre, ovviamente, alla piovra-ovunque Halliburton, guidata fino al 2000 dal numero due di Bush, Dick Cheney.

Ecco qualche piccola notazione a margine.

Nel consiglio d’amministrazione di Bechtel per anni ha fatto segnare la sua presenza George Shultz, potente ex segretario di stato Usa. Lous Berger Group, dal canto suo, è stato già in prima fila negli appalti stradali in Afghanistan, in Kazakistan, per la realizzazione di un maxi oleodotto, e nella ex Jugoslavia. Il vertice di Fluor per anni è stato appannaggio dell’ex vicedirettore della Cia Robert Inman, prima a capo dell’Agenzia per la sicurezza nazionale. Dello staff di vertice della Fluor, poi, fa parte Kenneth Oscar, per anni numero due delle truppe Usa e responsabile dello strategico comparto ‘acquisto armi e armamenti’.

L’altra commensale della maxi torta, Parson Corporation, è legata a doppio filo con una sigla-ovunque nei business militari a stelle e strisce, KBR, ovvero Kellog Brown & Rott. Vale a dire, una emanazione diretta di Halliburton. Cioè la “figlia” prediletta di mr. Cheney, il falco neo rieletto alla vice presidenza della Casa bianca.

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