Il danno collaterale questa volta si chiama Francesco, ha 16 anni e un proiettile piantato nel cranio. L’altra mattina non è entrato in classe ma in coma; al posto del banco in terza fila, un letto nel reparto di Rianimazione degli Ospedali Riuniti di Reggio Calabria. Il fatto è che i colpi di pistola destinati al padre che lo stava accompagnando a scuola non si sono eccessivamente preoccupati della sua presenza. Forse l’avevano addirittura prevista e subito accantonata tra le variabili di poco conto. Figlio o non figlio, con Salvatore Melara, un pregiudicato di Palmi da poco uscito di galera, bisognava evidentemente chiudere i conti. Che la missione sia stata compiuta lasciando Francesco mezzo morto sull’asfalto della provinciale per Polistena, per Pasqualina Zaccaria, preside dell’Istituto professionale per il Commercio frequentato dall’adolescente e madre di un undicenne ferito ad agosto in un altro agguato di ‘ndrangheta, conferma soltanto che “la Calabria è una terra persa”. Come tutte le terre in cui si spara ai bambini. Per errore, per rischio calcolato, per odio.
Francesco non è l’eccezione alla regola, ma l’ennesima riprova che regole, dalle parti della ‘ndrangheta, non ne sono mai esistite. Men che meno scrupoli, nonostante i fasci di fiori che boss e picciotti depositano devotamente ogni settembre ai piedi della Madonna della Montagna, a San Luca. Nel solo 2008 la processione del disonore toglie il fiato. A giugno, sul lungomare di Melito Porto Salvo, la recita dei bambini dell’asilo con i genitori raccolti in piazza, davanti al santuario della Madonna di Porto Salvo, non ha risvegliato nessun comandamento morale in chi ha mirato contro il 50enne Francesco Borrello, mancando il bersaglio. Antonino, 4 anni, una pallottola in gola, è uscito dall’ospedale “Bambin Gesù” solo qualche giorno fa. Ad accoglierlo a Melito c’erano in lacrime centinaia di persone. A parlare con i carabinieri, subito dopo l’agguato, non c’era nessuno.
A Papanice, nel Crotonese, Gaia è stato invece un rischio calcolato. Perché se spari il pomeriggio del 22 marzo, vigilia di Pasqua, contro l’utilitaria del tuo nemico – Luca Megna, 37 anni, figlio del boss della ‘ndrangheta, Mico Megna – mentre esce dal garage di casa hai messo in conto che sulla traiettoria ci possano finire anche moglie e figlia. Gaia ha cinque anni e alle spalle una lunga battaglia per sopravvivere al proiettile che le si è conficcato nella nuca. La risposta, due giorni dopo, fu altrettanto “distratta”: Domenico Cavallo, uomo del clan rivale dei Russelli, era insieme a moglie incinta e figlio di 2 anni quando gli si pararono davanti i killer. Ucciso l’uomo, illeso il bambino, ferita la donna. L’atteso soprassalto morale questa volta, forse, fu attenuato da ragioni di contesto: se ti chiami Megna a Crotone, devono aver pensato gli onesti, non può certo finire bene. Anche se hai 5 anni.
Allo stesso modo, se cresci a San Luca con il cognome Strangio può capitare che il Natale regali ai tuoi cinque anni il morso di una pallottola mentre tua zia Maria – moglie del boss Giovanni Luca Nirta – stramazza a terra senza vita. Era il 2006. D. di anni ora ne ha sette, va a scuola e quando gli elicotteri dei carabinieri sorvolano il paese si chiede chi siano venuti a prendere, gli sbirri, questa volta.
Domenico e Francesco non se lo chiesero neppure cosa volessero quei cinque incappucciati. Non c’era tempo. Provarono a scappare nel greto della fiumara. Francesco alzò una mano, forse per dire che avevano vinto loro, che il gioco era finito e che si tornava tutti a casa. Li trovò un pastore che sentì le raffiche, vide i corpi a testa in giù e bestemmiò il destino della Calabria “terra pirduta”. Domenico e Francesco avevano 9 e 13 anni, si chiamavano Facchineri e vivevano a Cittanova. Era l’aprile del 1975.
Li ricordano in pochi.