Africa

Libia, il «new deal» si chiama Gheddafi

Maurizio Matteuzzi
  Il primo settembre 2007 la Jamahiriya ha celebrato il trentottesimo anniversario della «rivoluzione» del 1962. Riaffermandone i principi di fondo che la ispirarono ma consapevole di doverli aggiornare. Il ruolo di Sayf al-Islam, il secondogenito del leader e forse il suo erede.
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Tripoli Uno dei paradossi della Libia, paese in transizione anche se non è ancora chiaro verso dove, è che i suoi due uomini più potenti ufficialmente non ricoprono alcuna carica pubblica.

Uno è il colonnello Muammar Gheddafi che il primo settembre scorso ha celebrato i 38 anni dalla rivoluzione del `62 contro la fradicia monarchia di re Idris: dopo l`avvento della Jamahiriya, lo stato delle masse, dal `79 ha rinunciato a ogni carica formale e resta il numero uno ma come «guida delle rivoluzione», «caid», «leader», «rais».

L`altro è Saif al-Islam Gheddafi, il secondo dei 7 figli del colonnello, che è presidente della Fondazione internazionale per lo sviluppo e le associazione di beneficienza, (da lui creata nel `97), consigliere stretto e forse erede designato del padre, ma formalmente senza alcun ruolo.

Il passare del tempo e le asprezze di una vita da leader «contro» hanno segnato la faccia del padre. La faccia del figlio, che ha 35 anni, non ha la fierezza beduina del padre ma piuttosto le sembianze dell`intellettuale e dell`artista. La differenza non potrebbe essere più grande, anche se il figlio ha un nome assai impegnativo – Spada dell`Islam – e doti scenografiche non inferiori a quelle del padre, famoso per le sue mises arabo-africane: lunedì scorso Sayf riluceva sontuoso, fra le colonne del Gymnasium greco-romane di Cirene, in un completo bianco, con tanto di mantello e copricapo, al lancio dell`ambiziosa iniziativa cultural-ambientalista di Jebel al-Akhdar, le Montagne verdi.

Cosa sta succedendo in Libia? E cosa succederà quando il leader uscirà di scena ma per davvero?

«Partners non salariati», uno degli slogan storici della rivoluzione del `62 e della Jamahiriya che campeggia da sempre nell`aeroporto di Tripoli, è sempre lì. Ma «la rivoluzione» dopo quasi 40 anni – e che 40 anni -, come il volto del leader, presenta inevitabilmente qualche ruga.

Tripoli sugli alberghi del lungomare e intorno alla Medina mostra ancora le luminarie approntate per le celebrazioni del primo settembre e i pannelli montati lungo le strade celebrano le conquiste della rivoluzione. I principi di fondo, che sono alla base del Libro verde, sono stati riaffermati anche in questo anniversario numero 38 – «Libertà, socialismo e unità» -, più altri due ad essi legati: «sovranità» e «auto-sufficienza».

Ma la necessità di aggiornare e rilanciare «la rivoluzione» in un mondo completamente diverso da quello in cui nacque, i libici l`avvertono tanto è vero che a quei principi fondativi affiancano ora un piano d`azione in cinque punti: 1) «l`abrogazione» di tutte le leggi che intralciano il corso della rivoluzione; 2) «la rimozione» di tutte le persone che ne ostacolano la marcia; 3) «la libertà delle masse», 4) «il rivoluzionamento della vecchia burocrazia» per rispondere ai bisogni di una Libia «nuova e moderna»; 5) «il rivoluzionamento della cultura enfatizzando i suoi elementi islamici».

Il richiamo alla burocrazia, alla libertà, alla modernizzazione della Libia e, insieme, all`Islam: i nodi sul tappeto ci sono tutti.

Muammar Gheddafi non è più quello che gli americani chiamavano sprezzantemente «the mad dog», il cane matto del Medio Oriente. Entro qualche settimana i saloni dell` Hotel Corinthia, il nuovo albergo di super-lusso dietro la Medina, o più probabilmente la tenda della caserma di Bab al-Azyzya davanti ai resti del bombardamento ordinato da Reagan nell`86, vedranno l`arrivo della signora Condoleezza Rice, il segretario di stato americano, che ha annunciato una sua visita a Tripoli per riaprire dopo 25 anni l`ambasciata americana.

Da quando, nel 2003, rinunciò ai suoi programmi di sviluppo delle armi non convenzionali – batteriologiche e forse anche nucleari -, la Libia è di nuovo sulla scena senza più remore e sanzioni. Con molto da offrire, sia sul piano economico ma anche politico.

Gheddafi non è andato a Canossa, come tanti altri leader del Medio Oriente e dell`Africa dopo la caduta del muro, e resta un personaggio imprevedibile. Ma è un leader pragmatico e un animale politico. In passato è stato un grande destabilizzatore, ma ora nessuno può ignorarne il ruolo di stabilizzatore. A cominciare dai temi incadescenti del fondamentalismo islamico per finire alla tragedia del Darfur (che si è offerto di mediare su richiesta del segretario dell`Onu Ban Ki-moon, arrivato a Tripoli giorni fa).

Nonostante la sharia, la Libia è esposta alla marea montante dell`estremismo islamico nell`Africa araba e sub-sahariana. Gli oscuri e sanguinosi incidenti di Bengasi, nel 2006, sono un campanello d`allarme.

Gli ulema detestano Gheddafi che li tiene sotto stretto controllo. Ma passeggiando la sera per il lungomare di Tripoli sembra di notare che il numero delle donne – e fra loro molte ragazze – che indossano il velo sia aumentato rispetto al passato. Forse è solo un`impressione dovuta alla «sindrome islamista» che ci ha preso dopo il 2001. Tutti, a cominciare dall`Occidente, devono fare attenzione a come muoversi con Gheddafi che, finora, è stato un tappo alla diffusione del virus fondamentalista e di al-Qaeda.

La Libia è uno dei pochi paesi stabili in un arco dal Medio oriente al Nord Africa caratterizzato dall`instabilità politica e quindi economica. L`ultimo rapporto del Business Monitor International, rinomata compagnia anglo-americana per le ricerche di mercato, la indica come uno dei paesi più «attrattivi» e più «sicuri» per investire denaro. La produzione petrolifera dovrebbe passare dagli 1.5 milioni di barili al giorno ai 2 milioni entro il 2007 e a 3 milioni entro il 2011. La Noc libica, National Oil Company, ha stretto contratti per i diritti di esplorazione e perforazione in patnership con le compagnie petrolifere di Usa, Algeria, India, Cina, Gran Bretagna, Spagna e Italia. Le riserve sono calcolate in 41 miliardi di barili, il greggio libico è di ottima qualità e con il barile a 80 dollari le prospettive sono rosee. Idem per il gas, di cui la Libia ha riserve provate per 1500 miliardi di metri cubi. Senza considerare che solo il 25% dello «scatolone di sabbia» è stato finora esplorato.

Il petrolio e il gas sono tanto (fra l`altro sono il 90% delle entrate libiche) ma non sono tutto. E qui entra in campo Sayf al-Islam, che pensa a quando il petrolio sarà finito. Pittore (ha esposto anche a Roma), architetto, buon tennista sui campi del Regatta club di Tripoli, un master in global governance alla London School of Economics, Sayf, in questi ultimi anni si è spinto più in là. «La democrazia è il futuro», ha detto in una intervista a Al-Jazeera. L`anno scorso aveva destato sensazione affermando la necessità di una maggiore libertà di stampa perché la stampa ufficiale è «noiosa» e «nessuno la legge» (quest`estate per la prima volta è apparso il canale satellitare tv al-Libya, critico con il governo ma attento a non superare «la linea rossa del Leader»). Qualche settimana fa è stato lui a confermare che le 5 infermiere bulgare accusate di avere infettato con il virus dell`Aids centinaia di bambini libici a Bengasi erano state torturate e che l`operazione dei coniugi Sarkozy per liberarle non era dovuta a nobili scopi umanitari bensì a un più prosaico obiettivo commerciale (armamenti e nucleare civile). E nei giorni scorsi, in occasione dell`anniversario della rivoluzione, ha ribadito i suoi concetti: una nuova costituzione, più privatizzazioni e un programma per attrarre 80 milioni di euro di investimenti dall`Europa. Lui parla di «evoluzione» della rivoluzione e, come al-Libya, è attento a non oltrepassare «la linea rossa».

Resta da capire se dice cose che il padre non pensa o se dice cose che il padre pensa ma non vuole ancora dire.

Il dopo-petrolio parte da Cirene

Nel meraviglioso scenario di Cirene lunedì scorso Sayf al-Islam Gheddafi ha lanciato un ambizioso progetto cultural-ambientalista che riguarda le Montagna verde, Jebel al Akhdar in arabo. Un grande progetto che pensa al dopo-petrolio ma anche a prima, adesso, quando gli effetti del modello di sviluppo energetico-petrolifero stanno provocando danni immensi al pianeta. All`Africa, il continente che meno inquina e che più soffre delle devastazioni ambientali, e anche della Montagna verde un micro-cosmo unico per bellezza e ricchezza ambientale, che ha visto negli ultimi 15 anni più che dimezzare la pioggia: da 600 millimetri a 250 millimetri l`anno.

A Cirene Gheddafi junior aveva convocato ambientalisti, naturalisti, archeologi, giornalisti di mezzo mondo (e inevitabilmente anche consultants delle compagnie che lavorano nel fruttuoso business dell`ambiente) per lanciare la «Dichiarazione di Cirene». Lo scenario era imponente, nel mezzo del Ginnasio greco, nel cuore della Montagna verde. La Green Mountain Conservation and Development Authority (GMCDA) sarà l`ente che dovrà contrastare la desertificazione, ridare splendore a una delle meraviglie dell`umanità, frenare con uno sviluppo endogeno l`emigrazione per i giovani libici, superare la civiltà del petrolio attraverso l`uso di energie alternative e rinnovabili, rilanciare e incentivare una produzione agricola basata su tecniche naturali, promuovere il turismo colto e consapevole.

«Un ambiente economico, ecologico e culturale di cui possano usufruire tutti gli attuali e futuri abitanti e visitatori della Montagna verde», come si legge nella Dichiarazione, che parte dalla creazione di un parco nazionale a protezione di un area che l`Unesco ha proclamato patrimonio dell`umanità. Un progetto di grande respiro, che parte dalla Libia ma che si rivolge al mondo.

Non si poteva trovare uno scenario migliore e più suggestivo. La Libia ha un grande passato e un grande futuro davanti a sè. Lungo i suoi 2000 km di costa, abitati fin dai tempi del neolitico, si sono succeduti a partire dal V secolo A.C. cartaginesi, fenici, greci, romani, bizantini e ottomani, grandi civiltà che hanno lasciato il loro segno. Cirene copre un`area di molte decine di ettari che gli archeologi italiani dall`11 al `43 prima (durante gli infausti anni del coloianlismo) e poi dal `57 a oggi stanno riportando alla luce. Oltre al meraviglioso Ginnasio, al tempio di Zeus – più imponente di quello del Partenone -, ora stanno lavorando al tempio di Demetra. Cirene, fondata dai greci nel 631 A.C. e poi divenuta una prospera provincia romana, non ha nulla da invidiare alle più note Leptis Magna, Sabratha e Gadames, ma è meno conosciuta. Con il progetto lanciato il 10 settembre forse potrà recuperare il tempo perduto e assurgere al ruolo che le compete: di meraviglia dell`umanità. In tutti i sensi.

Il Manifesto, 13 settembre 2007

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