I primi dubbi mi vennero sfogliando l’ignobile sito web delle Brigate Gialloblù veronesi, un famigerato gruppo ultras per il quale un magistrato arrivò a chiedere lo scioglimento (associazione a delinquere). Nel loro web, pagine e pagine di odio razzista si affiancavano a deliri contro ogni forma di diversità (dai vicentini ai meridionali, fino a negri ed ebrei).
Nella pagine interne si trovava un documento politico curiosamente ‘sofisticato’ rispetto all’infimo livello delle altre sezioni. Alcuni punti in cui si condannava il calcio moderno, la mercificazione dello stesso, lo strapotere e la prepotenza delle pay-tv, la trasformazione degli stadi.
Si diceva più o meno: “non più catini all’italiana, arene per eroici combattenti, ma stadi all’inglese, teatri per famiglie ‘armate’ solo di un biglietto, contropartita dello spettacolo acquistato”. Strano, mi dissi. Sono del tutto agli antipodi rispetto alle loro posizioni razziste ma potrei genericamente essere d’accordo sui punti contro la mercificazione del calcio. Eppure, ed è evidente, c’è qualcosa che non quadra.
Il razzismo e la lotta contro il pallone-merce diventano tragicamente coerenti se si riferisce il tutto ad una ideologia di estrema destra, secondo cui:
– noi siamo guerrieri
– difendiamo il gonfalone della nostra città, o comunque i colori che rappresentano la nostra identità
– odiamo tutti gli altri
– gli stadi devono rimanere arene dove noi gladiatori lottiamo in nome di questi valori.
La televisione diventa nemica, perché svuota gli stadi e soprattutto perché non potrà sopportare di far vedere ai propri clienti scene di sangue e – meno che mai – partite interrotte. Il tifoso estremo difende quindi i propri valori, contro la tv e contro la polizia, che con spiegamenti sempre più ingenti e tecniche antisommossa tende ad impedire il maschio confronto tra medievaleggianti “comuni” (provate a chiedere ai cittadini di Pisa o Livorno cosa succede quando queste squadre di affrontano…).
Nelle diatribe telematiche, specchio di quelle quotidiane, sono frequenti e quasi ossessivi i riferimenti a striscioni rubati, recuperati oppure esibiti come grotteschi trofei. Non è casuale la cultura guerresca e spesso squadrista, che celebra nello scontro il suo massimo punto di arrivo.
Lo scontro va anche cercato, ma leale e senza ‘lame’. Chi affronta lo scontro è un uomo, chi scappa è un coniglio. La massima irrisione possibile è rivolta alla fuga dei ‘conigli’, cioè coloro che non affrontano uno scontro. La polizia è il fastidioso impedimento al dispiegarsi ‘naturale’ degli scontri.
Questi concetti sono propri degli ultrà, sono la loro mentalità sempre esibita, e proprio per questo è impossibile distinguere tra buoni e cattivi, simpatici e no. La cultura dello scontro e dei conigli è la bandiera di tutti gli ultras, indipendentemente dai colori che esibiscono sugli spalti o dalla loro eventuale fede politica. Il culto del tafferuglio è lo stemma che esibiscono con orgoglio in ogni occasione.
Quanti fra i tifosi-ultras sono disposti a rifiutare ogni tipo di violenza ed a non considerare coniglio chi scappa? Molto probabilmente, un’infima minoranza, almeno a giudicare da riviste, siti, giornaletti, messaggi che immancabilmente rinfacciano ai nemici di averle prese o di essere scappati, di aver parlato con o di essersi appoggiati alla polizia, di aver contravvenuto al codice di onore che ad esempio non prevede coltelli ma scontri a mani nude.
Oppure, sempre più frequentemente, minacce di vendette e appuntamenti per scontri campali, dove chi non si presenterà sarà a buon diritto etichettato per sempre come coniglio. Ci sarà sempre qualcuno a ricordare di non generalizzare, dimenticando che un’adolescente pacifico e sonnacchioso può all’istante trasformarsi in un teppista se circondato e drogato dal branco, all’interno del quale – siamo sempre lì – la colpa peggiore è dimostrarsi coniglio.
Del resto, quanti dei ragazzi che la domenica cantano a squarciagola cori osceni e insensati ed offese gratuite agli abitanti di città vicine dove magari hanno parenti ed amici avrebbe mai il coraggio di ripetere le stesse canzoni da solo o comunque in un contesto differente da quello coercizzante della curva?
E del resto anche l’iconografia del tifoso (emarginato, instabile mentalmente, poverissimo, disoccupato, analfabeta o quasi) è sempre più spesso contraddetta dalle cronache che raccontano anche di persone “normali” che diventano imbarazzanti Mr. Hyde al momento della trasferta o della partita casalinga.
Dunque quale la soluzione? La sera in cui i derby romano è stato fermato per volontà degli ultras si è toccato il livello più basso, in cui “il mondo a parte” del calcio (D’Avanzo su Repubblica) non solo ha imposto la sua volontà allo Stato ma ha platealmente ammesso che fanno parte nei fatti dei suoi organi decisionali anche i capi dei tifosi.
Che prendono decisioni e le impongono.
Dopo la tragedia di Avellino, durante la quale un ragazzo napoletano perse la vita, furono presi alcuni provvedimenti tra cui quello secondo cui non si può entrare allo stadio se non si è in possesso fin dalla stazione di partenza del biglietto (allora gli incidenti furono provocati da napoletani che cercarono di entrare senza biglietto).
Una soluzione improvvisata, nell’Italia che non guarda in faccia la realtà e non ha il coraggio di pensare – ad esempio – che il problema sono loro ed i loro non-valori.
Loro e la loro cultura dello scontro e della violenza che può portare a situazioni estreme e persino eversive – come in quella sera – ma che nelle ipotesi migliori genera comunque tensioni.
Una idea su cui riflettere: retrocederli. Da ultrà a spettatori. Come nei loro incubi, come nel calcio moderno. Nello stadio che da arena diventa teatro, ogni spettatore col suo biglietto e il suo posto, che va a vedere uno spettacolo sicuramente più appassionante di altri ma non per questo bisognoso di battaglie campali e striscioni insultanti.
Il tifo organizzato – almeno questo tifo organizzato – deve semplicemente sparire oppure rinunciare alla violenza. Così come i bravi giornalisti e commentatori devono rinunciare ai distinguo, ai se ed ai ma che fanno da apripista alla prossima tragedia, dopo la quale tutti diranno basta, si è toccato il fondo, e le pene sono da inasprire, e così via…
Prendiamo ad esempio il pessimo commento di Tim Parks, “I fondamentalisti della domenica”. Parks è l’autore di un osceno libretto che raccontava le gesta della Brigate Veronesi, al cui seguito trascorse un anno intero. Parks parte da un presupposto giusto ed interessante, che tra l’altro rivela la sua perfetta conoscenza della mentalità e della attuale realtà dei tifosi organizzati:
“Da quando si è deciso che bisogna metter fine a questi scontri con l`intervento massiccio della polizia, ecco che tutti gli ultras acquistano un nemico nuovo, e per lo più ben armato ed equipaggiato, cosa che rende più intenso il conflitto e che apre la strada a un fronte comune tra tifoserie nemiche, una nuova e più cupa identità.
Ma neanche la polizia è il vero nemico degli ultras. Che è la televisione. E` in questa chiave che va letto quello che è successo a Roma domenica sera. Per presentare il calcio a un vasto pubblico rispettabile, la tv richiede l`eliminazione degli spettacoli sgradevoli. Gli ultras devono scomparire per proteggere un business. Aver guastato il piacere sedentario a milioni di spettatori attraverso la fantasia di un tifoso vittima della polizia, ecco una grande vittoria per gli ultras”.
Termina il suo intervento con una tesi che è esattamente opposta a quanto si sostiene qui:
“Ma perché non distruggerli con la repressione e basta? Gli inglesi ci sono riusciti. Pochi però fanno notare che negli anni in cui Highbury e Anfield sono diventati sicuri come dei cinema e costosi quanto l`opera lirica, la violenza delle gang nella periferia di Londra è aumentata in modo vertiginoso. Si va sicuri allo stadio il sabato, ma certe strade di notte bisogna proprio evitarle. Meno male, però, che questa violenza, meno spettacolare e ritualizzata, miete le sue vittime lontano dall`attenzione delle telecamere” (Repubblica, 24 marzo 2004).
Parks sostiene che gli ultras non sono associazioni criminali e sono caratterizzati da una “corrosiva ironia”. Chiudere le loro arene di lotta gladiatoria, quindi, significherebbe spostare il problema, secondo il tradizionale luogo comune secondo cui i tifosi sono esclusivo frutto di emarginazione sociale, e non anche di calcoli politici e strumentalizzazioni di presidenti senza scrupoli.
Prendiamo ad esempio la televisione, che i tifosi organizzati di molte squadre bersagliano con lo slogan “Questo calcio ci fa sky-fo”. Ma in nome cosa? Della purezza del tifoso guerriero in contrapposizione a Murdoch mercante senza valori?
A parole sì, ma nei fatti, spesso no. In molti hanno sottolineato (ad es. “Svastiche ed affari”, sul Corriere della Sera del 22 marzo 2004) che molti gruppi di estrema destra tra gestione delle trasferte, vendita del merchandising della squadra e/o del proprio gruppo, gestione dei biglietti ed attività varie gestite in accordo con le società sono diventati molto “commerciali”, e dunque vedono temibilissimi concorrenti nelle pay-tv capaci di svuotare gli stadi ed adattarle alle proprie esigenze da qui a qualche anno.
Ecco perché – qui torniamo al punto di partenza – la battaglia contro il calcio-merce può partire da presupposti molto diversi e non è detto che arrivi alle stesse conclusioni. Nessuno apprezza il ruolo delle tv e quello delle società ammaliate dal business, né la privatizzazione dei guadagni e la socializzazioni dei costi (ordine pubblico, costruzione degli stadi,…) che da anni è il problema vero del calcio.
Però non ci si può neanche sentire compagni di strada di ultras che in molte realtà sono capaci di coalizzare intere comunità, che li vedono come i nostri ragazzi, coloro che difendono l’onore della città e spesso gli interessi materiali di cialtroneschi dirigenti.
Basti pensare a due realtà diverse ma con in comune la vicenda delle rispettive squadre di calcio “giudicate” dal TAR. Giudicata positivamente l’una, negativamente l’altra. Tifoseria nera nel primo caso, “rossa” nel secondo. Teppisti da un lato e dall’altro. Protagonisti di incidenti e disordini.
Due presidenti che si chiamano Gaucci e Pagliuso, noto personaggio il primo, il secondo finito in galera con la pesante accusa di associazione mafiosa.
Eppure Catania e Cosenza dall’estate sono comunità che a tutti i livelli (politici, con l’eccezione del sindaco di Cosenza, amministratori locali, gente comune) sostengono la causa della squadra di calcio e spingono le manifestazioni spesso violente dei loro ultrà, da ultimo gli incidenti provocati dai tifosi casentini che pretendevano di andare a manifestare sotto il Tar del Lazio senza pagare il biglietto del treno.
Cosa sono questi dettagli? Così come la ragione e il torto. La gestione dalle squadre e delle società, spesso ostacolate dall’ultras consigliere di amministratore occulto che minaccia disordini se “viene ceduta la bandiera” o se non arrivano “i rinforzi” (facile poi parlare di bilanci malati…).
Se la società di calcio è un “valore sociale”, si può anche passare sopra sulle malefatte dei dirigenti e sostenere l’ennesimo condono. Perché qui si parla di valori superiori, l’onore della nostra città…