Ha avuto molta risonanza qualche settimana fa il divieto del sindaco di San Francisco di usare acqua in bottiglia negli uffici governativi, visto che i rifiuti di plastica continuano a riempire discariche già in crisi, che i camion per il trasporto delle casse contribuiscono al caos climatico e che peraltro l`acqua del rubinetto è ottima e di fonte. Anche il sindaco di Salt Lake City ha chiesto ai dipendenti pubblici di non mettere più tali bottiglie sui tavoli delle conferenze e degli eventi pubblici; una brocca, bicchieri di vetro e via. New York ha lanciato una campagna di un milione di dollari per incoraggiare la gente a bere l`acqua del rubinetto. E alcuni ristoranti di lusso stanno scrostando via l`immaginario costruito da decenni di bombardamento pubblicitario: status symbol non è più l`acqua imbottigliata ma la sua assenza sul tavolo. Tutto questo: a quando anche in Italia?.
Giorni fa la Pepsi ha dovuto ammettere che la sua Aquafina è giusto acqua del rubinetto da fonte pubblica. E ha accettato di scriverlo sull`etichetta. Con tutto ciò, la frase della rivista indiana è di quelle che colpiscono. Perché collega questo inquinante business alla questione della sopravvivenza. L`industria dell`acqua in bottiglia, sottolinea, è di natura globale ed è congegnata per fornire lo stesso prodotto a due mercati completamente diversi: quelli ricchi di acqua e di denaro, e quelli scarsi di acqua e impoveriti. L`India è il decimo consumatore mondiale di acqua imbottigliata. La domanda è cresciuta dai due milioni di «pezzi» nel 1990 a 68 milioni nel 2006. In India è peraltro gravissimo il problema della mancata fornitura di acqua potabile da parte degli acquedotti. E così le compagnie private semplicemente scavano pozzi e pompano l`acqua nelle bottiglie, trasportandola nelle città. È la privatizzazione dell`acqua da bere. Il fatto è che l`acqua del business anche in India non è diversa da quella che dovrebbe sgorgare dai rubinetti; l`unica differenza è che è implasticata e portata dai camion anziché dai tubi dell`acquedotto. La fabbrica della Coca Cola nell`arida regione di Kala Dera vicino a Jaipur (stato del Rajasthan) estrae ogni giorno mezzo milione di litri di acqua pagando bruscolini per la concessione; anche il costo del trattamento, anche quello più perfezionato a osmosi inversa, costa al litro un quinto del prezzo di vendita. Più care le bottiglie, il trasporto, la pubblicità e la catena di vendita. Ma i guadagni rimangono enormi.
Quel che si dimentica, dice la rivista ambientalista, è che alla fine sono i «ricchi», ovvero la classe media, a determinare la crisi del sistema idrico pubblico e la sua incapacità di fornire acqua potabile. Perché? Perché anche nei quartieri abbienti l`acqua dell`acquedotto costa un mero decimo di quanto il servizio costi alla collettività, senza contare le spese (sempre pubbliche) per il trattamento dell`acqua in uscita dalle case; o in parallelo quelle per trattare le bottiglie di plastica (sempre con denaro pubblico). Non c`è alcun recupero dei costi. Così non si investe per estendere il servizio a chi non riceve acqua potabile, e non ha i soldi per comprare le bottiglie Kinley. Anzi la fornitura idrica via via peggiora.
Imperativo è dunque superare una situazione per cui l`acqua del rubinetto costa troppo poco rispetto ai costi di «produzione» ma questa spesso non è potabile e altrettanto spesso non arriva a larghe fasce della cittadinanza (che non possono comprarsi le bottigliette).
Il Manifesto, 31 agosto 2007