Chi di voi avrebbe voglia di passare la vita a contare gli intervalli tra una guerra ed un golpe? Oppure a vendere acqua fredda dai bordi di una strada polverosa ai turisti distratti? Chi a vedere gli amici, i compari, i parenti dei boss del regime occupare tutti i posti che contano, e lasciare i capaci, i meritevoli a marcire in coda?
L’Africa è questo, e molto altro, per colpe sue o degli ex colonialisti: non è comunque un bel posto dove passare l’esistenza. Ed ora che le radio, le parabole dei satelliti e da ultimo internet hanno spiegato che il fatalismo, il volere di Dio, il destino sono favole buone per i vecchi ed i falliti, non c’è giovane africano che non pensi: io ci voglio provare.
Trovare un passeur, bruciare la frontiera, vincere la guerra. La vita è racchiusa in questi tre obiettivi. Individuare un trafficante che ti dia modo di partire, superare la distanza tra il pianeta della miseria e quello delle opportunità, vivere o morire in quella che diventa una personale lotta contro la miseria.
Poi lo sbarco, o l’individuazione in mare. E qui siamo abituati a vederli, stupiti del nostro stupore. I telegiornali gridano all’invasione, il popolo commenta: dove andremo a finire. Appaiono per pochi attimi. Perché di quello che accade prima non importa nulla a nessuno. Gente asciugata dal sole mentre attraversava il Sahara a piedi, uomini morti in fondo all’Atlantico nel braccio di mare che divide il Senegal o il Saharawi dalla Canarie, giovani neri uccisi dai proiettili delle guardie mentre saltavano le barriere tecnologiche del muro di Ceuta, eritrei sfracellati contro gli scogli mentre provavano a raggiungere Lampedusa dalle coste libiche, pachistani mangiati vivi dal sale nel fondo del Canale di Sicilia, profughi derubati dai poliziotti ad ogni cambio di frontiera, donne violentate da gendarmi, passeurs, compagni di viaggio, maliani rinchiusi nei campi del Senegal o del Marocco ed espulsi alla frontiera, che spesso è solo una linea infinita di sabbia bruciata dal sole impietoso.
La tenda nel deserto
Una cena tra amici, una tenda bianca nel deserto della Sirte, grandi sorrisi e strette di mano che possono decidere della vita e della morte di milioni di africani.
Siamo nell’agosto del 2004, il presidente del consiglio si chiama Silvio Berlusconi, la sua coalizione è piena di post-fascisti e razzisti della Lega che schiamazzano contro le frontiere colabrodo, l’invasione sulle spiagge estive, l’assalto alle coste. Un elettorato isterico vuole sicurezza, frontiere sbarrate con la saracinesca, guardia costiera dal grilletto facile. Dall’opposizione non trovano di meglio che dire: ecco, vedete? La Bossi-Fini non funziona.
Tutti sanno che c’è un solo uomo che può fermare le partenze, e si chiama Muhammar al Gheddafi. Il libico sa che questa può essere una occasione storica per ottenere il risarcimento dei danni di guerra, una questione che si trascina da decenni e che potrebbe essere chiusa magari con la Rasegedir-Umsaad, 1900 chilometri di autostrada, per un costo da tre a sei miliardi di euro, a carico degli italiani.
Una partita a scacchi, in cui i migranti che arrivano a Lampedusa sono la meno importante delle pedine.
Berlusconi vola in Libia, anche la scenografia fa parte del gioco. C’è da ottenere la costituzione di pattuglie miste italiane e libiche sulle motovedette che controlleranno il mare, l’addestramento dei libici da parte di funzionari italiani e il rimpatrio degli immigrati che transitano sul territorio libico.
Per molti anni gli africani che volevano raggiungere l’Europa si sono affannati a raggiungere Sfax, in Tunisia. Il denaro europeo – spesso mascherato da progetti di cooperazione – sta foraggiando i regimi del Nord Africa per un solo motivo: devono bloccare le partenze. Perché quei corpi scheletriti, quegli sguardi, quelle speranze raccolte ed ammassate su uno scafo di vetroresina sono diventati molto importanti per la politica.
Nonostante costituiscano appena il 10% degli arrivi irregolari (dati del Ministero dell’Interno, rapporto 2006), possono spostare molti voti, creare dal nulla carriere politiche, o distruggerle. La propaganda basata sulla paura ha prodotto governanti disposti a tutto per fermare non tanto gli arrivi, quanto la visibilità degli stessi.
Per cui arriveranno comunque, ma dovranno sbarcare in maniera discreta dopo aver affrontato rischi indicibili. E mai più, ad esempio, su una spiaggia agostana ripresa dalle telecamere.
Diritti umani
L’intervento del regime di Tunisi è stato efficace, non si è più sentito parlare di partenze da quel paese. Tutto si è spostato in Libia, dove pochi trafficanti si sono arricchiti a dismisura. Qui, non ci sono scafisti come in Albania. I libici non si imbarcano, e non hanno alcun motivo per farlo. Troppi rischi e nessun vantaggio.
Affidano uno scafo ad un timoniere improvvisato, una pistola ed una pacca sulle spalle.
Dopo la sceneggiata tra Berlusconi e Gheddafi, per qualche tempo non ci sono stati più sbarchi. Bloccati con la facilità con cui si chiude un rubinetto. Poi nuovi ricatti e contrasti: gli sbarchi riprendono. Col governo Prodi proseguono le trattative, si stipulano gli accordi. Nel 2003, il governo italiano finanziò il rimpatrio forzato verso la Libia, mediante una cinquantina di voli charter, di oltre 5000 clandestini espulsi dall’Italia, il cui personale destino, visti i regimi politici di alcuni dei paesi africani cui furono rinviati a forza, è rimasto oscuro.
All’inizio del 2007, il ministro degli interni Amato parlava di “buoni frutti” a proposito della collaborazione coi libici.
Il 18 gennaio, infatti, erano stati arrestati a Tripoli 190 candidati all’emigrazione clandestina verso la Sicilia. Human Rights Watch ha denunciato a più riprese nel corso del 2006 gli abusi commessi dalla polizia libica nei centri di detenzione per i migranti, tre dei quali sono finanziati dall’Italia. Arresti arbitrari e senza processo, maltrattamenti, furti, lavori forzati, torture e esecuzioni. Nelle prime due settimane di gennaio 878 arresti e 1.536 deportazioni.
Da metà settembre 2006 le deportazioni sono state addirittura 8.336. Rispediti in aereo nei Paesi di origine, molti richiedenti asilo rischiano la vita, specialmente in Sudan e Eritrea. Per altri, in Niger, Sudan, Ciad e Egitto, l’espulsione significa semplicemente essere abbandonati nel deserto, lungo una linea disegnata su una mappa; che Allah ti protegga e tanti saluti.