I turisti che provano a raggiungere eroicamente il Sud in auto, i camionisti che portano merci da un capo all’altro della penisola, gli autisti degli autobus di linea, insomma tutti i disgraziatissimi “utenti” dell’autostrada Salerno-Reggio Calabria, martoriata da eterni lavori di ampliamento, mentre erano in coda o affrontavano slalom mortali tra le corsie ristrette, hanno avuto lo stesso pensiero.
Non è possibile che per una terza corsia ci vogliano dieci e più anni. Qui il problema inizia e finisce con una parola sola: `ndrangheta.
E se prima, per i lavori del tratto campano e di quello cosentino, sono occorsi alcuni anni per avere delle prove, adesso il sospetto ha il privilegio di diventare certezza in tempo reale. Mentre le ruspe spostano tonnellate di terra, mentre vengono traforate le gallerie, mentre gli operai sudano sotto il sole di luglio, abbiamo la sicurezza che i clan della zona hanno messo le mani sui lavori, hanno guadagnato le solite cifre iperboliche sulla protezione dei cantieri, hanno imposto il tre per cento e quindi il loro dominio allo Stato ed alle maggiori ditte di costruzioni del Paese. Ed ai cittadini che vedono negato il diritto a spostarsi in libertà.
Arca
Il 7 luglio del 2007 la Dia di Reggio Calabria annuncia i dettagli dell’Operazione “Arca”. Le principali cosche della fascia tirrenica reggina e vibonese avevano messo le mani sugli appalti per i lavori di ammodernamento dell’autostrada Salerno-Reggio Calabria sia estorcendo il 3% del valore complessivo alle imprese aggiudicatarie, sia imponendo il ricorso a società di riferimento per la fornitura di materiale e servizi.
Secondo i primi risultati delle indagini, a pagare la “tassa sicurezza cantiere” erano tutti: la Condotte spa, la Coop costruttori, la Gepco salc, la Baldassini-Tognozzi, l’associazione temporanea di impresa composta da Sicilsonde, Italgeo, Caramazza, Rindone, costrette da “violenza e minacce – come scrivono i pm della Dda – costituite dagli attentati subiti…”. I cognomi sono i soliti: 15 arrestati ma tutti di peso.
Ogni intervento era stato spezzettato: ai Mancuso, spettava la competenza nel tratto Pizzo Calabro-Serra San Bruno; ai Pesce, il tratto tra Serre e Rosarno, infine, tra Rosarno e Gioia Tauro, ai Piromalli.
Vittime o colluse?
Già nel 2006 decine di attentati contro ruspe, cantieri, depositi nelle zone comprese tra Gioia Tauro e Reggio Calabria avevano indicato con chiarezza le intenzioni della criminalità. Tra i pochi a cogliere il segnale, l’assessore regionale all’urbanistica chiedeva l’intervento del ministero degli Interni – sottosegretario era il calabrese Minniti – e l’attuazione del protocollo di legalità.
Già, perché nell’aprile del 2005 Impregilo, in qualità di impresa leader, firmava con la Prefettura di Reggio Calabria e l’ANAS S.p.A. il protocollo d’intesa per la prevenzione dei tentativi di infiltrazione della criminalità organizzata.
L’azienda si impegnava a coadiuvare l’attività delle Istituzioni per arginare le infiltrazioni mafiose durante la realizzazione dell’opera, oltre che adottare tutte le misure del caso atte ad evitare affidamenti ad imprese sub-appaltatrici e sub-affidatarie Ma le imprese hanno ceduto alla campagna di fuoco delle ndrine o si sono sottomesse ben volentieri? Secondo i magistrati non erano un mistero le regole delle cosche.
Dall’inchiesta, coordinata dal pm Roberto Di Palma (l’ordinanza è stata co-firmata da Salvatore Boemi, e dal pm Nicola Gratteri) emerge, infatti, che le grandi imprese del Nord inviano i loro emissari per mediare. Tanto che Di Palma, incontrando i giornalisti, ad un certo punto si è chiesto: “Imprenditori sottoposti ad estorsione o collusi?”.
Imprese come la Condotte Spa e la Impregilo, ad esempio, avevano insediato nelle loro società, rispettivamente Giovanni D’Alessandro e Francesco Miglio, che, dicono gli inquirenti, “da sempre avevano avuto a che fare con esponenti della criminalità organizzata e con imprese di riferimento alle cosche”. Non solo, dalle indagini é emerso anche che il 3% che le varie ditte erano costrette a pagare, veniva recuperato con “l’alterazione degli importi delle fatture”.
Secondo Boemi, “ci sono imprese oneste che collaborano con lo Stato che sono sistematicamente escluse dai lavori”. Nel quadro delineato dagli inquirenti un ruolo di primo piano l’aveva un sindacalista della Cgil assunto come assistente di cantiere nell’agosto del 2004. Secondo l’accusa era lui “il trait-d’union tra la grande impresa e le cosche della Piana di Gioia Tauro”.
Un mediatore, un tuttofare che doveva gestire gli uffici, trovare le sedi, assumere gli operai, gestire i rapporti con le imprese subappaltatrici e con i fornitori di calcestruzzo, comporre di dissidi tra imprese ed operai, insomma fare tutte quelle cose che su un territorio difficile possono essere rese agevoli con una parentela alla lontana con la moglie di Giuseppe Bellocco, capo cosca e super latitante catturato nelle campagne di Mileto proprio nei giorni dell’operazione “Arca”.
L’immagine dell’Italia
La notizia ha avuto la solita modesta eco sui media italiani, mentre molti giornali esteri si sono mostrati attenti. Scrive il francese “Le Figaro”: “Inaugurato nel 1997 fra Salerno e Reggio Calabria, il grande cantiere di 443 chilometri che dovrebbe mettere fine all’isolamento del Mezzogiorno, continua ad essere controllato dalla mafia. […] La “legge-obiettivo”, votata nell’estate del 2001 dal Governo di Silvo Berlusconi, avrebbe dovuto tenere i clan fuori dai cantieri, imponendo un sovrintendente unico di progetto per i lavori. Nei fatti, la divisione del tracciato in più tronconi decisa nel 2004 dalla società pubblica di aggiudicazione, l’Anas, ha facilitato le collusioni. […]
Su 443 chilometri, 115 non sono stati ancora messi in cantiere. L’autostrada a sei corsie avrebbe dovuto essere già terminata. Non lo sarà prima di almeno due anni. Lo Stato ha già sborsato 6 miliardi di euro e dovrà aggiungerne almeno altri tre”.
Infiltrati in pianta stabile
Il paradosso più grande è il continuo, ossessivo, uso del termine “infiltrazioni mafiose”. La prima costruzione dell’autostrada segnò il passaggio della `ndrangheta da criminalità agropastorale, dedita all’abigeato ed ai sequestri, a mafia imprenditrice. All’inizio degli anni ’70, i boss sperimentarono i rapporti ad alto livello con la politica, la costituzione di ditte, l’emissione di fatture a molti zeri, la gestione di entrate ed uscite, fecero un salto di qualità decisivo ed imposero il loro potere, grazie ad uno Stato debole, compiacente, colluso. Fin dall’inizio dei lavori – cioè fin dal 1997 – sono stati innumerevoli gli allarmi, le denunce, le inchieste e persino le operazioni della magistratura.
“Un lotto è un processo, una gara d´asta è un rinvio a giudizio”, scriveva “la Repubblica” nel 2005. L’operazione “Tamburo”, culminata col sequestro di un intero pezzo di autostrada, al di là dell’esito giudiziario che ha visto molte assoluzioni, ha comunque evidenziato i tentativi della criminalità di gestire appalti, protezioni, mediazioni pure in un’area non tradizionalmente mafiosa come la Calabria settentrionale.
Infine, l’operazione “Arca” ha confermato quanto ipotizzato: la mafia più forte d’Europa non sopporterà che si lavori a casa propria senza intervenire. Una facile profezia, uno Stato debole e corrotto, una imprenditoria debole e furba. Ma, per favore, risparmiateci adesso la favola delle infiltrazioni. Secondo voi, chi sono i padroni di questa terra? E chi sono gli infiltrati?