ESPN, il più grande network sportivo del pianeta, ha deciso di acquistare i diritti televisivi per la serie A 2007.
Un imbarazzato spot racconta ai propri telespettatori di un campionato finalmente pulito in fase di rinascita (dirty e clean sono le parole ricorrenti).
Il pomeriggio del 2 febbraio 2007, dopo aver modificato il proprio palinsesto per l`azione combinata di Sant`Agata e delle preoccupazioni di ordine pubblico, ESPN si collegava con lo stadio “Massimo” (così veniva chiamato), ed iniziava a raccontare in tutto il globo prima la partita Catania – Palermo, “the sicilian derby” e quindi – all`arrivo dei supporter palermitani – le continue interruzioni.
Con grande professionalità sopportavano lo sforamento di oltre un`ora, fino a commentare stupiti le immagini dei giocatori che imboccavano il tunnel sopraffatti dai lacrimogeni, del gol di mano festeggiato con ilarità, del lancio di petardi e fumogeni, degli scontri sulle tribune. Ed ancora il peggio doveva arrivare…
Un dopo-partita folle costava la vita all`ispettore capo di polizia, Filippo Raciti, 38 anni, e provocava il ferimento di un centinaio di persone.
I giornali dell`intero pianeta, dal Clarin all`Herald Tribune, tutte le televisioni, i siti ed i forum internet, i canali satellitari che ancora hanno il coraggio di pagare per trasmettere la serie A dall`Iran alla Cina, dai paesi Arabi fino ad Hong Kong, i commenti in mandarino ed in farsi dei video di Youtube e tanti tanti altri raccontano increduli di una partita di calcio che diventa una guerra, con un bilancio da guerra.
Gli ultrà tutto questo semplicemente lo ignorano. La weltanshaung del buzzurro curvaiolo, la loro concezione del mondo si limita ad aggiungere la parola “merda” in coda al nome degli odiati avversari. Il resto – compresa la vita umana – non esiste o viene dopo.
Non so se ESPN rinnoverà il contratto con la serie A, ma è probabile che dopo pochi mesi ne abbia già abbastanza di guerriglie plebee, zero a zero pre-determinati, partite soporifere tra avversari modesti, livello tecnico da serie B, arbitri accerchiati da forsennati per una rimessa laterale dubbia, spettatori urlanti ed isterici.
Quest`estate il calcio italiano aveva toccato il fondo, ma da allora ha abilmente cominciato a scavare, annullando persino gli effetti benefici di una vittoria in Coppa del Mondo.
Per prima cosa i dirigenti dello sport avrebbero dovuto capire che il calcio italiano è un fatto collettivo, un insieme unico, un blocco, non la risultante delle guerre per bande, degli scontri per contare di più e “fottere” gli odiati avversari.
La mai chiarita vicenda delle intercettazioni Inter-Telecom, la strana posizione di Guido Rossi (prima all`Inter, poi al comando del calcio, poi alla Telecom), gli scudetti assegnati a tavolino, un campionato squinternato che ha lasciato il sospetto di una finta giustizia prodotta da manovre, complotti, furberie hanno causato la fuga degli spettatori, il disgusto del calcio, un campionato che “vale meno” nel suo insieme.
In secondo luogo, lo “scandalo” è stato sepolto da un`ondata di finta indignazione, falso moralismo, luoghi comuni tanto mendaci quanto ricorrenti.
Chi ricorda, adesso, di fronte alle immagini di Catania-Palermo, le osservazioni di quanti ritenevano gli ultrà “la parte migliore del calcio”?
Nonostante tutto, anche oggi continuano le frasi fatte.
“Questi tifosi non hanno nulla a che vedere col calcio”. “Sono solo una minoranza”. “Occorrono leggi severissime”.
Proviamo a rispondere.
Questi tifosi sono il primo prodotto del calcio: determinati comportamenti, dai cori razzisti alle offese fino agli scontri all`arma bianca, sono possibili solo dentro e fuori gli stadi e con una sciarpa al collo. In qualunque altro ambito sarebbero istigazione a delinquere, istigazione all`odio razziale, lesioni personali, etc.
In curva diventano “il calore dei nostri ragazzi”, “il dodicesimo uomo”, etc.
Che i tifosi violenti siano una piccola minoranza è smentito sia dal comportamento spesso unanime degli spettatori allo stadio, sia dalla terribile serata del Cibali. Millecinquecento (avete letto bene: 1500) tra poliziotti e carabinieri possono forse essere sopraffatti da uno sparuto manipolo di facinorosi?
Non è facile descrivere l’immensa quantità di odio, disprezzo, violenza che ogni domenica calcistica italiana riesce ad esprimere. Dal Nord al Sud, più le città sono vicine più cresce la febbre del “derby”, l’ottusa rivalità che non di rado sfocia nello scontro armato.
Non è certo un problema meridionale: il centro (Roma – Lazio) e l`estremo nord (Bergamo-Brescia) sono coinvolti alla stessa stregua, ma il culmine lo raggiunge probabilmente la civilissima Toscana, dove è indefinibile la violenza che scatena Pisa-Livorno, che per fortuna ora giocano in campionati diversi.
Le forze di polizia di tutto il Paese sono settimanalmente mobilitate per contenere questo enorme serbatoio di odio, per limitare la violenza, per impedire gli scontri.
Quando “va tutto bene”, si assiste comunque a duelli verbali spaventosi che si esprimono in cori, insulti ritmati, striscioni grondanti aggressività.
Non c’è solo emarginazione giovanile nelle “curve” che affollano gli stadi, ma anche una vasta area di consenso di persone “normali” che ritengono giusto lo scontro col campanile avverso.
Questo avviene in serie A come nei campetti in terra battuta, indipendentemente dal fatturato in gioco. Ecco una tipica espressione del tifoso: “vincere sul campo, vincere sugli spalti”.
Sono i due obiettivi che rendono piena una vita insipida. La vittoria sul campo la ottiene la squadra, ed alla fine ogni mezzo va bene. Il trionfo sugli spalti si ottiene con striscioni taglienti, cori offensivi che durano 90 minuti e – se la polizia lo permette – scontri all’arma bianca o sfregi all’avversario (il più ambito è lo scippo di striscioni e simboli del nemico: sciarpe, maglie, etc.).
Talvolta, stroncare l`interposizione della polizia diventa l`obiettivo comune degli ultrà delle opposte fazioni.
Infine, l`ennesimo richiamo all`inasprimento delle leggi. Siamo ormai al limite della Costituzione, e le leggi speciali, specie se non vengono applicate, non servono a nulla. Partite con questi presupposti non devono essere giocate, oppure giocate a porte chiuse.
Dopo Messina-Catania, il capo della polizia locale parlò di una situazione da Libano. Ma non ci furono morti e si andò avanti con tranquillità. Viva il calcio siciliano…
Ad ottobre l`inviato del Financial Times arrivava a Palermo. Il suo giornale lo inviava a raccontare il miracolo del calcio siciliano. I rosanero erano in testa, Catania e persino Messina nelle prime posizioni. “Il triste stato del calcio italiano permette il decollo della Sicilia”, scriveva il giornalista. Insomma, non è la Sicilia che si risveglia ma l`Italia che si sta addormentando.
“Sarebbe bello dire che questo è il simbolo di una nuova Sicilia, ma non è così”. Considerando che tutti gli indicatori sociali, economici e politici dell`isola sono allarmanti, la conclusione è che il calcio è una vetrina, una facciata che nasconde uno stato comatoso dell`intera Isola. “L`isola rimane disperata”, dice il giornale inglese riferendosi alla classifica di vivibilità in Italia de “Il Sole – 24 Ore”. Nel calcio, il momento magico è dovuto al pessimo momento generale: “Violenza, bancarotte, corruzione e calo di spettatori. C`è da meravigliarsi che qualcuno ancora guardi la serie A”.
L`articolo si concludeva ricordando la violenza espressa nei derby siciliani: era ancora fresco il bilancio degli incidenti dopo Catania-Messina.
Quelle poche righe furono accolte con fastidio dai media nazionali e come una serie di offese mortali dalla stampa locale.
Il ministro dello Sport , Giovanna Melandri: “Le illazioni del Financial Times decisamente le restituiamo al mittente”.
Pippo Baudo: “Articolo scandaloso. C`è sempre la presunzione degli inglesi di credersi migliori degli altri. Farebbero meglio a guardare il fango che c`è in casa loro”. Il Palermo Calcio: “Analisi superficiale”. Salvatore Cuffaro, presidente regione Sicilia: “Un certo tipo di giornalismo inglese è davvero divertente per il suo basso livello. Non vale neanche la pena di prendersela, leggendo l`ennesimo astioso attacco che viene rivolto all`Italia e alla Sicilia in particolare”.
I siciliani adorano la voluttà di autodenigrarsi, ma guai se qualcuno prova a criticarli. “Perché noi siamo Dei”, rispondeva il principe di Salina al volto interrogativo del conte piemontese. Pur discutibile nel tono, il pezzo del Financial Times aveva colto alcuni problemi che tutti – dal ministro dello Sport a Pippo Baudo – hanno preferito ignorare, per poi svegliarsi gonfi di indignazione la sera del 2 febbraio 2007.
La solita ricerca del superlativo, una sequela di “inaccettabile”, “inammissibile”, “gravissimo”, una foresta di pugni di ferro, leggi severissime, atti eclatanti hanno inondato i telegiornali. Per sommo paradosso, la vituperatissima Inghilterra di ottobre a febbraio diventava l`Eden del calcio, il modello da seguire, l`esempio massimo.
Bisogna copiare dagli inglese. Ed ecco gli steward a guardare gli spettatori, ecco la sicurezza affidata alle società. Quindi, se 1500 poliziotti addestrati ed equipaggiati non riescono a mantere l`ordine al Cibali, dovrebbero riuscirci poche decine di giovani inappuntabili e sorridenti?
Proviamo a capovolgere il discorso.
Gli ultrà, così come oggi sono concepiti, devono trasformarsi in spettatori.
Non possono esistere gruppi organizzati di violenti che predicano e praticano la violenza, sia quella regolata degli ultrà buoni (scontri a mani nude, contendenti di pari numero, divieto di scappare) sia quella criminaloide a base di coltelli e bombe carta dei “cani sciolti”.
Espressi questi concetti già in estate, e mi scrissero – con molta cortesia – alcuni ultrà. Spiegavano che nel complesso la violenza è marginale nel panorama dei tifosi, in genere è solo un`opzione estrema, e mi invitavano a visionare il lavoro fatto in Emilia Romagna dal “Progetto Ultrà”, gente che organizza attività antirazziste, combatte il calcio – business di Murdoch e si occupa di raccontare la storia del tifo italiano.
Effettivamente dalle loro mostre emerge un`immagine diversa: il tifoso italiano non è solo plebe marginale, ma è di provenienza interclassista, quasi mai è uno straccione (i tifosi non si vestono male, ma seguono ed impongono le mode a base di timberland, bomber, zainetti, etc.), a volte diventano piccoli imprenditori (stampa di sciarpe e magliette, organizzazione dei viaggi, gestione dei biglietti) ed interlocutori rispettabili dei dirigenti della società calcistica.
Ma si arrivava sempre e comunque ad un punto di scontro: anche il tifoso antirazzista, buono, cosciente, intelligente quando gli si chiede di rifiutare la violenza gratuita e sciocca che ammorba gli stadi (ma anche i treni, le stazioni di servizio, persino i porti e le autostrade italiane) risponde blaterando di mentalità ultrà, regole da rispettare, vendette da consumare, coltelli da bandire in nome dello scontro leale… Come se a mani nude non si potesse uccidere – magari senza volerlo – un uomo, come se uno striscione rubato fosse una ragione sufficiente per spegnere un`esistenza.
La battaglia principale degli ultrà buoni è quella contro il calcio moderno. L`ingresso delle pay-tv avrebbe deturpato la purezza del pallone, imponendo regole vessatorie ed imbastardendo costumi sani.
“Ci sono troppi interessi nel calcio”, diventava in estate il consolante luogo comune che annullava le responsabilità. Il denaro corruttore aveva rovinato quello che “deve essere un semplice gioco”.
Eppure, le cronache italiane abbondano da sempre di casi di violenza ed intimidazione contro gli arbitri (arbitrare in certe zone è sempre stato molto pericoloso), partite truccate, accordi sottobanco, scommesse clandestine, e soprattutto aggressioni continue ad allenatori e giocatori.
Sono le serie minori, in particolare i campionati dilettanti, il palcoscenico privilegiato di questi fatti, anche grazie ad un minor controllo ed a meno occhi addosso.
Mille trafiletti non fanno un pezzo di prima pagina, e se ne sono accorti gli abitanti di Luzzi, piccolo paese del cosentino citato ovunque solo per aver avuto la sventura di ospitare come campo neutro un incontro di terza categoria. Il 30 gennaio 2007 Ermanno Licursi, dirigente sportivo, veniva ucciso a calci al termine di una rissa che coinvolgeva una ventina di persone delle squadre avversarie.
Finalmente, dopo il morto, tutti si accorgevano della violenza che sconvolge le serie minori. Nessuno cita più il denaro corruttore. Quali “grandi interessi” muoveranno mai Cancellese e Sammartinese?
Dopo la tragedia, il solito mare di lacrime di coccodrillo ed una sola considerazione interessante. “In Italia non esiste la cultura del tempo libero”, dice Carlo Tavecchio, presidente della Lega Dilettanti.
Ed è vero. Nella citatissima Inghilterra si gioca a tutti i livelli con lealtà: dai professionisti (che non sono stati corrotti dal fiume di denaro arabo e russo che è arrivato in Premier League) ai dilettanti che finiscono di lavorare, si incontrano in campo con durezza e rispetto, e poi finisce tutto lì, tutti insieme al pub. Quello è il tempo libero, la zona franca da coltivare, in cui divertirsi, non certo un momento in cui rischiare la pelle senza uno straccio di motivo.
“Il nostro [invece] è ancora un paese di campanili, di mille dialetti, di permalosità, dove in alcune zone si corrono forti rischi fisici. In Italia non c’è la cultura della sconfitta”, dice ancora Tavecchio.